di Raffaella Guidi Federzoni e Snowe Villette
Recentemente in questa arena alterata si è scritto riguardo al declino dei tappi di sughero.
Proprio a questo pensavo mentre qualche gocciolina di sudore imperlava la mia fronte concentrata. Mi trovavo su di una terrazza prospicente la follia urbanistica di San Paolo, Brasile, e stavo stappando con delicatezza chirurgica sei bottiglie di tre annate diverse: 1978, 1987 e 1997. Tutte Brunello Riserva, rappresentanti l’azienda per la quale mi onoro di lavorare.
Queste bottiglie provenivano dalla cantina personale di famiglia, sempre tenute alla temperatura giusta. Convinto a fatica il proprietario, le avevo messe con cautela in valigia, circondate da panni puliti. Per fare loro spazio avevo rinunciato a parte del guardaroba. Me lo potevo permettere, in Brasile non c’è bisogno di maglioni nemmeno in inverno, che da quelle parti è sempre più mite della nostra primavera.
Atterrate a San Paolo dopo dodici ore di viaggio, mi ero augurata che fossero meno provate di me.
Estratte e collocate verticalmente per ventiquattro ore, finalmente erano giunte a destinazione. La terrazza di un ristorante “veramente” italiano, di fronte alla tavola dove avrei presenziato il pasto a tema, di fronte ad una mezza dozzina di giornalisti.
In loro attesa mi stavo impegnando, con l’aiuto di un sommelier esperto. Alla fine ci sono riuscita, nonostante le due bottiglie di Riserva 1978 avessero due tappini mai sostituiti e che si sono sbriciolati a metà. Il vino però era integro. Dopo una scompostezza iniziale si è rimesso in piedi e dritto come un fuso ha ammaliato i miei commensali per la sua freschezza nonostante l’età. Chi lo sa come sarebbe stato dopo più di trenta anni di chiusura con un tappo a vite.
Chissà.
Questa è stata la prima tappa del mio terzo viaggio in Brasile. Anni fa desideravo di visitare il Sudamerica, tutto quanto a parte il Brasile. Troppa povertà, troppo divario fra le classi sociali, pensavo pregiudizialmente. Adesso, ogni volta che ritorno mi piace sempre più. Certamente è una nazione che ha ancora enormi problemi, ma possiede anche notevoli risorse. Una delle più importanti risiede proprio nel carattere generale della sua popolazione. Non voglio incartarmi in un’analisi sociologica che non mi compete, però nei miei tre soggiorni ho sempre avvertito un’energia ed una voglia di vivere alla giornata tutt’altro che negativa.
Questo aiuta il mercato del vino, i brasiliani hanno radici europee, il loro smisurato gusto per la vita comprende anche il cibo, la cultura conviviale e le storie collegate ai loro predecessori al di là dell’oceano.
In cinque giorni ho lavorato in tre città e sono sempre stata accolta calorosamente. Ho mangiato benissimo e così così. Ho visto i diagrammi di vendita e mi sono rallegrata. Nonostante i vini extra Sudamerica siano penalizzati da tasse pesanti, il loro consumo è in crescita. La classe media vuole divertirsi, mangia fuori, viaggia in Europa. La stampa locale ha voglia di scrivere su di noi e se invitiamo alle nostre presentazioni dei giornalisti, questi vengono, assaggiano, approvano, chiedono e prendono appunti.
L’aspetto fondamentale rimane comunque trovare il partner commerciale giusto. Ci sono troppi importatori od agenti improvvisati, un certo banditismo serpeggia, una certa vaghezza aleggia. Ciò nonostante, fra tutti i paesi del BRIC, il Brasile è quello che mi ispira più confidenza, che mi convince a tornarci ancora ed ancora, investendo tempo e denaro per migliorare i risultati del mio lavoro.
In tutto ‘sto discorzo serissimo DuCognomi s’è scordata de scrive quarche particolare saliente de tutto er soggiorno brasileiro. A comincia’ daa lingua che già ar seconno giorno parlavamo, ce bastava fa’ ffini’ tutto de “au” o de “igna/igno” che ce capiveno. L’amica mia c’aveva appresso l’interprete, ma tutti voleveno senticce parla’ italiano. Nun solo questo, i nativi s’aspettano da noi itagliani che sapemo canta’ e balla’. E se nun lo famo noi, ce penzano loro. Così na sera ce semo trovate a presenta’ i vini sur palco d’un posto che più che ristorante sembrava na palestra. Dopo la performance de DuCognomi ce dicono “V’avemo fatto na sorpresa”, e in du’ balletti t’arrivano on stèigg un tenore, un basso e na soprano che c’aveva più culo che voce. ‘Ndovina un po’ che te cantano? La solita triade maledetta: Nessun dorma, O sole mio e Con te partirò.
Bene, famo noi, applausi, mo ce n’annamo, grazie mille, comprate er vino me riccomanno.
Macché, quelli ce staveno a prenne gusto. Attaccheno come invasati Funicolì Funicolà e tutti a batte mani e piedi, facenno gesto a DuCognomi come a dì “E mo balli!” Ma l’amica mia s’era spalmata sulla porta der sanitario feminino e nun c’è stato verso de schiodalla.
L’ultima sera ce semo rifatte. Nun se po’ anna’ in Brasile e nun fasse armeno un giro de samba.
Così avemo convinto l’interprete a portacce da quarche parte dove la sònano làiv. Un posto che da fòri sembrava na rimessa de auto usate ma drento pulsava de vita. La band tutta insieme arivava a cinquecento anni d’età, però infilaveno na canzone dopo l’artra come gòl de Pelé quanno era novo.
Dopo la prima capirinha DuCognomi nun la teneva più nessuno, appena er capo der posto, cor panama e na panza a prova de stupro l’ha invitata a balla’ s’è arzata e messa d’impegno. L’omo panzuto sapeva come far navigare una femmina ner samba. Onda su onda attraverso i marosi musicali, era na bellezza da guarda’. Tutt’intorno coppie de giovani e antichi ce davano drento.
C’è da dì che le brasiliane de là nun so quelle che se vedono a Milano paa settimana daa moda. Ner senzo che so’ diversamente tonde, però se movono co’ n’arte sopraffina. Quanno c’hai du’ zavorre così o sei brasiliana o sei solo grassa.
Nun so se me so’ spiegata.