di Raffaella Guidi Federzoni
Per le Idi di Marzo gli Sherpa del vino smettono di ciacciare* nei social ed iniziano ad agire. Vero è che si sono già scaldati i muscoli con qualche anteprima, qualche fiera più o meno locale, qualche roadshow appresso ad uno sciamano assatanato di soldi.
Si tratta però di allenamento, non di competizione vera e propria. C’è un cratere di differenza fra sbicchierare per un pubblico composto da clienti privati ed argomentare con un’ audience formata da importatori e/o distributori.
Per quanto mi riguarda, mentre da metà gennaio fino ai primi da marzo mi sono degnata con grazia e pazienza di presenziare e spiegare a giovani, giovanissimi, quasi giovani e verosimilmente anziani, cosa fosse quello che stavano deglutendo, da dove venisse e cosa significasse, più recentemente ho invertito il mio modo di agire e di pensare.
Come me circa mezza dozzina di migliaia di persone.
Perché è arrivata la Prowein, cioè la fiera più concentrata sul puro business, spogliata dall’adrenalina del Vinitaly e dal grande respiro del potere che ancora aleggia sul Vinexpo.
Alla Prowein non è permesso scherzare, sono tre giorni in cui i giochi si giocano con serietà.
A Düsseldorf si presenta il mercato, quello che non si fa incantare da storie ma bada ai prezzi e – purtroppo – anche alla notorietà effimera data da punteggi e visibilità. Soprattutto gli asiatici arrivano perché hanno letto, non perché hanno assaggiato. Quando sono davanti al mio banchetto assaggiano sì, ma con distrazione. A loro interessa sapere se non hai vincoli, se hai dei prezzi buoni che si possono ridurre. Se sei disponibile ad investire con i tuoi soldi, non con i loro.
Lontani sono gli appassionati, i privati intruppati che affollano tante piccole manifestazioni ed aspettano pazienti in fila con il bicchiere in mano, pur di assaggiare QUEL vino, solo quello.
In terra germanica, fra le diverse Halle camminano frettolosi uomini con la valigetta. Passano dall’Italia all’Argentina, toccando il Canada e ignorando il Medio Oriente.
Passano, presentano il biglietto da visita, fanno tre domande, sempre quelle, prendono i tuoi dati e salutano dicendo che si faranno sentire. Poi sostano al banchetto accanto e ricominciano.
La Prowein dura tre giorni, uno meno del Vinitaly. Tre giorni ben oliati che scorrono sulle rotaie della Metro, con un’organizzazione forse meno perfetta di anni fa, ma pur sempre impensabile a Verona.
Questa fiera macina energie e non lascia molto tempo per apprezzare una città che ospita almeno un paio di musei di arte moderna e contemporanea notevoli. Una città che offre chicche architettoniche lungo il fiume che la attraversa.
Rimane la sera per rilassarsi bevendo birra pisciosa che lava via il gusto appiccicoso di uno stinco oversize (mi chiedo cosa succede al resto del maiale, un clone di porco ad otto zampe che gli scienziati teutonici hanno messo a punto da anni, ma tacciono per paura di essere accusati di nostalgie razziali).
Rimane anche la possibilità di una mezz’ora l’ultimo giorno per fare un’escursione verso Est. Non potevo ripartire senza aver assaggiato qualche vino dell’Azerbaijan, mi sarei sentita privata di un’esperienza che olezzava di Via della Seta e petrolio, Zoroastro e spezie. Ho quindi lasciato la mia rassicurante italica postazione per avventurarmi su terreni affascinanti ma meno battuti.
In effetti lo spazio riservato ai produttori vini azeri, ma anche kosovari e macedoni, era semi deserto. L’unico luogo più popolato da visitatori era quello occupato da produttori georgiani, al momento estremamente à la page.
Per non far torto a nessuno ho ecumenicamente assaggiato vini di tutte queste nazioni, mantenendo come minimo comun denominatore il rifiuto di provare prodotti da vitigni alloctoni.
Mi sono lasciata guidare dalle etichette e dalla disponibilità di chi mi versava il vino. Tutti quanti si sono mostrati stupiti che non avessi voglia di degustare Cabernet Sauvignon, Shiraz/Syrah, Merlot, Chardonnay ma che puntassi il dito su etichette con su scritto Rkatsiteli, Madrasa, Saperavi, Temjanika, Vranec, Shavkapito, Buza, Danakharuli.
A questo punto immagino che alcuni fra i miei scarsi ma smaliziati lettori abbiano già provato l’esperienza di beva medio-oriental-caucasica. Ho diversi amici e conoscenti che ben volentieri ti raccontano o scrivono di vini anforati e grandi investimenti in zone antiche a lungo tempo trascurate ma ora non più.
A questo punto non mi interessa che abbiano già scritto o raccontato.
A questo punto ho assaggiato anche io. Certo essi hanno scandagliato verticalmente e orizzontalmente, persino guidando su e giù per strade nuove e larghe o vecchie e sassose. Strade di quei luoghi là, nel cuore della Via della Seta o nelle valli eurasiche.
Io invece ho passeggiato frettolosamente e superficialmente fra bicchiere e bicchiere.
Mi chiedo però se la conclusione non sia la stessa o quasi.
La conclusione cioè che si tratti di vini bianchi, rossi, ambrati, aranciati, interessanti e volonterosi. Si vede che la tecnica occidentale si è ben amalgamata col recente quattrino autoctono per offrire vini puliti, moderni, levigati. I bianchi di facile beva tendente ad una certa dolcezza. I rossi rotondi come i fianchi di una danzatrice del ventre. I vini conservati in anfora più grezzi e sgraziati nonostante una freschezza apprezzabile. I vini invecchiati convenzionalmente più strutturati e pesanti.
La fierezza di chi mi segue nella degustazione parlando inglese in modo dignitoso è giustificata. Quei posti là sono stati i primi a produrre vino e adesso hanno ricominciato.
Nel frattempo, parlo di molti secoli, qualcosa è cambiato più ad ovest.
Ma davvero? Cosa è successo ad ovest?
Siamo arrivati noi, indoeuropei. Noi abitanti della penisola italica. Noi agricoltori franco-iberici. Noi monaci pazienti e zappatori. Noi commercianti anglosassoni. Noi aristocratici e alto-borghesi amanti della bella vita.
Noi medioevali, rinascimentali, illuministi, risorgimentali, belleepoquisti.
Noi che abbiamo creato il vino moderno e poi quello contemporaneo.
Noi che adesso ci gingilliamo con questo ritorno al passato remoto.
Arriverete anche voi veteromondisti ai livelli identitari e qualitativi dei nuovo mondisti, i quali si sono dati una smossa negli ultimi vent’anni circa dopo decenni di produzione omologata, confortevole e noiosa per la sua ripetitività?
Oppure vi lascerete influenzare dal modello produttivo cinese in cui quello che conta è la rapidità produttiva a beneficio della quantità e non della qualità?
Si può solo attendere, il vino non si fa in un giorno e nemmeno in un decennio, forse in un secolo.
Per ora possiamo tornare alle nostre centinaia di vitigni varietali, ai nostri vignaioli locali e localissimi. Alla nostra tipicità, al nostro individualismo, alle nostre cantine home made prive di investimenti, se non quello della fatica di una, due, dieci, cento generazioni.
Ne riparlerete sì. Io no perché sarò morta e sepolta. Ne riparlerete quando sarà possibile capire che un sorso può riportare ad un posto, non solamente ad una varietà. Un sorso da scegliere sugli scaffali o nelle carte dei vini dei ristoranti all over the world. Un sorso che farà capire come in Georgia, Kosovo, Macedonia, Azerbaijan si sono dimenticati di cosa un vino sia per circa mille anni e poi hanno ricominciato, non solamente tirando fuori anfore da armadi sepolcrali, ma provando, riprovando, aspettando e finalmente interpretando il passato con la capacità presente ed il senso del futuro.
Nell’attesa mi sto caricando di adrenalina per Verona, dove comincerà fra pochissimo il Vinitaly. A Verona, dove il vino è vino sì, e tutto il resto è gioia.
*termine vernacolare che indica “abbandonarsi al cazzeggio”