
di Fabio Rizzari
Nel dizionario Treccani,
revisionismo s. m. [der. di revisione] 3. In storiografia, tendenza a modificare interpretazioni storiche ormai consolidate […]
indica un rischio e un’opportunità delle riflessioni che seguono. Le quali riflessioni trascrivo “a chiarezza di me”, secondo il Goro di Stagio Dati che D’Annunzio cita con ammirazione.
Senza alcuna pretesa di valore universale, ma rimanendo strettamente nei confini personali.
E dunque dico, a chiarezza di me, che alcuni dogmi incontestabili del vino “alto”, del “vino d’autore”, o peggio del “grande vino” li posso rivedere, e li rivedo. Non già con astuzie dialettiche da sofisti, ma semplicemente guardando con onestà dentro il mio proprio palato, se mi si passa la sgradevole immagine da accertamento odontoiatrico.
Se io mi guardo con onestà eccetera, riconosco a me stesso che, tutto sommato, alcuni caratteri nobili dei vini nei fatti non mi interessano.
O meglio, non mi interessato più di tanto, rispetto al passato.
La complessità: bene, che bellezza, senti quanti profumi, quante nuances, quante gradazioni di sapore. Per converso, di un vino semplice: è unidimensionale, non ha sfumature.
La persistenza: bene, che bellezza, senti quanto è lungo, senti quanto rimane al palato, anche se ti lavi i denti il giorno dopo lo senti ancora.
Per converso, di un vino corto: sfugge via, non ha tenacia.
La maturità: bene, che bellezza, senti che frutto maturo, senti che polposità. Per converso, di un vino che ha qualche riflesso vegetale: è verde, è crudo, non ha souplesse.
Io invece bevo con sempre maggiore soddisfazione vini poco o per nulla complessi. Poco o per nulla persistenti. E magari non perfettissimamente maturi. Non per determinazione bastiancontrariesca, ma perché tutto sommato sono quelli che mi garba mandare giù.
Ad esempio. Pur ammirando il grande Bettane, quando scrive dei Pinot Noir alsaziani: “Paris raffole de ses vins rouges légers de pinot noir, produits en toute petite quantité et dont la qualité est d’une banalité le plus souvent désarmante” (Parigi ama i suoi vini rossi leggeri da pinot nero, prodotti in piccolissime quantità e la cui qualità è di una banalità il più delle volte disarmante), non lo seguo.
Ora per dire sto bevendo un Pinot Noir alsaziano che, a dispetto di un nome inutilmente altisonante (La Table des Rois, Charles et Philippe Brand, 2021) ha proprio quello che mi piace.
Non è complesso? amen. Non è persistente? amen.
Con gli anni avrò avuto un moto retrogrado, regredendo da bevitore attento a troglodita del gusto. Amen.
Attenzione
Sono fuori del perimetro i vini da uve di scarsa qualità, o immature, o i vini eccessivamente diluiti. Insomma, le porcherie.
Sono dentro il perimetro i vini da uve di buona qualità, con qualche tratto non del tutto maturo (càpita, se non si operano selezioni drastiche e non si vuole prendere a tutti i costi “il meglio”).

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