Un’età felice piena d’infelicità

di Shameless

Tempo fa scrissi in questo luogo alterato di non credere nella felicità come sensazione duratura. Ne sono tutt’ora convinta, invece credo nell’infelicità come sentimento complesso che racchiude anche rabbia, frustrazione, desiderio di cambiamento; un sentimento quindi che può rendersi positivo.

Per questo motivo esco dal mondo del vino e le sue bolle, beghe, balle.
Chi si appresta ad avventurarsi nella lettura di quanto segue è quindi avvisato, no wine at all.

Entro in un mondo forse più congeniale e meno fisicamente dannoso per la mia età, ma che comunque crea una dipendenza: la letteratura.
Per essere più precisa, esco dalla mia comfort zone di lettura abituale, tutta esterofila. Da un po’ sto cercando di leggere più narrativa italiana moderna e contemporanea. Non parlo qui di poesia italiana, che nel Novecento è suprema e in gran parte ignorata, e la cui lettura saltuaria non ho mai abbandonato.
Voglio soffermarmi su quella che è stata una stagione prolifica, vivace e variegata per quanto riguarda la letteratura italiana dal secondo dopoguerra fino più o meno a metà anni Ottanta.
Una stagione felice.

Uscendo dal disastro della guerra, dalla censura fascista, spesso per entrare inconsapevolmente in un’altra prigione ideologica, i letterati scalpitavano per dire qualcosa di nuovo, o almeno per parlare di qualcosa di vecchio con parole nuove. Una generazione ferita dalle colpe dei padri che però manteneva la preparazione culturale e lo spessore linguistico della precedente, anche nelle sperimentazioni più azzardate. La produzione di quella manciata di decenni può essere molto intellettuale, molto convenzionale, oppure popolare e sguaiata, od onirica e introspettiva, politicamente impegnata, disimpegnata, ironica, seria, nostalgica o futuribile. Si può scegliere come si vuole, è come tuffare le braccia fino ai gomiti dentro un cesto di regali natalizi.

Non parlo di perfezione ma di varietà. La Trinità riconosciuta di quel periodo è composta da Calvino, Moravia e Pasolini. Tre scrittori diversissimi nello stile e gli argomenti, a volte litigavano pubblicamente tramite i quotidiani che allora erano letti sul serio. Personalmente non li considero i migliori in assoluto, Elsa Morante – per esempio – li supera tutti e tre. Certo che la qualità della loro scrittura giganteggia comunque in confronto a chi è arrivato dopo e ancora un poco li scopiazza.

Oltre i magnifici quattro citati ce n’è a decine, mi vengono in mente – perché letti da poco – Carlo Cassola, Raffaele La Capria, Ennio Flaiano, Giorgio Bassani, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Giovanni Testori, Tommaso Landolfi. A questi si possono aggiungere Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Giuseppe Tommasi di Lampedusa, Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Goffredo Parise, ecc. ecc.
Furoni anni furibondi anche per l’editoria, a volte rinchiusa nel circolo degli happy few, ma con direttori editoriali del calibro di Italo Calvino e Elio Vittorini. Scelte classiste, maschiliste, politiche? Certamente. Emarginazione di scrittori non allineati e controversi? Anche. Pettegolume e invidie reciproche? C’era pure questo.

Ma c’era una vitalità, una voglia di emergere, una necessità di esserci che tracimava, confondendosi con altre arti come il cinema. Grandi scrittori e grandi sceneggiatori, grandi ego che si aggiravano per Roma, capitale provinciale e dissoluta.
Tutti gaudenti e in gran parte infelici di una felicità propulsiva che spingeva a scrivere per comunicarla.
Poi le luci si sono lentamente attenuate fino a spegnersi. Tanto altro è successo, anni di terrorismo e di televisione commerciale.

Lentamente un velo di conformismo e contemplazione ombelicale ha coperto la varietà fino a farla scomparire. Non so se si è smesso di leggere qualità perché si è smesso di scrivere qualità o se è colpa delle case editrici che hanno smesso di rischiare. Nel frattempo sono proliferate le scuole di scrittura sfornando migliaia di compitini ben confezionati e intercambiabili tra loro.

Una soporifera nostalgia è emersa, nessuno litiga, tutti parlano bene di tutti, si scrive di sesso senza alcun erotismo, di dolore senza alcuna pena, di ricerca di identità senza alcuna ironia. Libri di centinaia di pagine che raccontano la sfiga ma non strappano né sorrisi, né compassione.
C’è disagio, ma non infelicità.

Questa forma patinata e prolissa non appartiene solo alla letteratura italiana, come tanto altro l’influenza è anglosassone, soprattutto statunitense. Due palle lì e due palle qui. Non stupisce che ci sia un incremento di vendite di letteratura di genere, come il fantasy che riproduce lo stile di tanti videogiochi, o storie romantiche a lieto fine prive di qualsiasi valore letterario, o racconti polizieschi seriali con personaggi assurdi che in confronto La Signora in giallo è credibile, puntata dopo puntata.

Bene, ho dato il mio contributo di presuntuosa e acida boomer, posso ritirarmi nei miei appartamenti dove un libro mi aspetta, insieme a un bicchiere di vino gioioso e per niente infelice.

*Contentezza quotidiana, 7 febbraio 2023.

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