I tre vini del cuore

di Giancarlo Marino

Premessa
L’ispirato racconto che segue proviene dalla più banale delle domande, quella che la maggioranza dei cronisti scarterebbe perché troppo scontata: caro Giancarlo, quali sono i tuoi vini del cuore?
L’ho fatta conscio della quota non modesta di zuccheri residui presente nella definizione stessa di “vino del cuore”. Eppure mi sono detto – tra me e me, quindi facendo restare tutto in famiglia – che anche la più vieta delle domande può costituire la piccola scintilla per accendere una luce non ovvia sul vino, e sugli esseri viventi bipedi che lo bevono.
F.R.

Caro Fabio, questa è una domanda che non avresti mai dovuto rivolgermi. Mi costringi a ravanare tra oltre 40 anni di stappature, mettendomi di fronte all’imperativo di scegliere solo tre vini tra chissà quanti potrebbero degnamente fregiarsi del titolo.

Per fortuna non mi hai chiesto i tre migliori vini della mia esperienza, considerando la mia innata idiosincrasia per la classificazione dei vini secondo le metodologie normalmente in uso, a partire dalla famigerata scala parkeriana su 100 punti, per arrivare alla classificazione competitiva nata con i social (questo vino fa il culo a tutti gli altri; tra questo vino e gli altri non c’è partita).

Tra i tanti vini del cuore ne ho scelti tre. Sono quelli che da un lato hanno colpito i miei sensi per quanto erano buoni, e che dall’altro hanno colpito direttamente il cuore “a prescindere” dalla loro bontà (tanto per fare una citazione che farà piacere a Fabio, l’esegeta di Totò più colto che io conosca).

Vosne Romanée 1er cru Beaumonts 1993 Emmanuel Rouget
Dopo esserci conosciuti e frequentati su un forum, in cui io ero Giama, loro Aramis, Tenia e Grandebozzo, decisi che era venuto il momento di conoscerci dal vivo, in carne e ossa.
Io ero quello che sul forum rompeva le palle sulla Borgogna, sempre e solo sulla Borgogna. Loro erano quelli che non avevano mai bevuto un vino della Cote d’Or e mi prendevano per i fondelli per la mia monomania.

Lewis Carroll ci inserirebbe facilmente, oggi, nel racconto di Alice nel paese delle meraviglie.
Io sarei il bianconiglio, una sorta di “amo” che adesca tutti e li trascina nell’avventura in Borgogna.
Armando (Aramis) sarebbe il Cappellaio matto. Non si ferma mai tra la scrittura di un libro e un master sulla Borgogna, e invece degli indovinelli propone geniali anagrammi.
Antonio (Tenia) sarebbe il Bruco. È rimasto sempre uguale a se stesso, senza mai diventare farfalla. Continua a volerci alla sua tavola per festeggiare il suo compleanno e dirci che ci vuole bene.
Luca (Grandebozzo) sarebbe lo Stregatto. Compare e scompare, sempre con un  sorriso malizioso ma bonario dipinto sul volto.

Volevo trascinarli nella mia passione per la Borgogna e avevo preparato varie bottiglie. La prima che aprimmo fu il Beaumonts 1993 di Rouget. Ero stato a trovare Henri Jayer ma non avevo cavato un ragno dal buco. Avevo quindi dirottato la ricerca sul nipote Emmanuel Rouget, avendo saputo che all’epoca i vini in realtà li faceva lo zio. Quale migliore introduzione alla Borgogna?

Il vino era straordinario, come straordinaria fu la loro reazione, davvero come se Carroll li avesse trasportati con una magia nel paese delle meraviglie, delegando il Bianconiglio a indicare loro la strada. Ma la cosa ancor più straordinaria fu che quel giorno nacque una amicizia che dura ancora oggi. Una amicizia in cui il vino è un mezzo, non un fine, un modo di manifestare i nostri sentimenti, una scusa per sorridere e prenderci in giro perché, come ha detto qualcuno, ogni giorno trascorso senza sorridere è un giorno sprecato.

Il Sodaccio 1986 Montevertine
Per circa quindici anni, ogniqualvolta sono stato in Borgogna, ho portato vini italiani. I nostri amici borgognotti (produttori, sommelier, operatori, amici degli amici) non conoscevano la cucina e il vino italiano ed erano curiosi di sapere. Credo di non aver dimenticato nessuno dei più grandi vini italiani, dal nord al sud, e di aver preparato con i compagni di avventura decine di ricette italiane. Soprattutto piatti di pasta, a grande richiesta, e il mito della carbonara di Armando per 20 persone ancora echeggia tra le mura dello Château di Chorey-Les-Beaune.

Qualche anno fa ho deciso di portare un vino per il quale ho avuto sempre una passione particolare, il Sodaccio 1986. I motivi di questa passione sono da ricercare in un mix di amicizia per Martino e Liviana Manetti, di amore per il Chianti Classico (sono stato svezzato a Sangiovese), ma ovviamente anche di perfetta corrispondenza del vino a quello che mi piace di più e che più cerco in un vino.

Ho avuto la fortuna, nel tempo, di aprirne diverse, anche grazie alla generosità di Martino. A Montevertine ho festeggiato i miei 60 e 70 anni, e il Sodaccio 1986 mi è stato donato anche in queste occasioni, l’ultima bottiglia con l’augurio di festeggiare a Montevertine anche i miei prossimi 80.
Ovviamente speravo che la bottiglia fosse in perfetto stato. Invece superò anche le mie aspettative, rivelandosi senza discussioni la migliore di quelle fin lì bevute, un vero spettacolo.

Il vino piacque a tutti, e fin qui nulla di strano. Ma vicino a me sedeva una giovane e famosa produttrice della Cote d’Or, che dopo averlo bevuto richiamò la mia attenzione per ringraziarmi per quel vino. Gli occhi umidi di sincera commozione suggellarono quella esperienza: “è una vera delizia!”.
Il vino non era entrato solo nel mio cuore, ma anche in quello di molti altri. Confesso di essermi sentito orgoglioso.

Volnay 1er cru Champans 1964 Voillot
Chi mi conosce e mi ha letto da qualche parte sa della mia passione per Jean-Pierre Charlot e per i vini del Domaine Joseph Voillot. Per venti anni siamo scesi nella cantina, umida e in penombra, per assaggiare dalla botte i vini della nuova annata. Non saprei dire se furono più gli assaggi o le risate per le continue battute di Jean-Pierre. Al termine degli assaggi, non c’era bisogno di sollecitarlo: si allontanava una, due, tre volte sparendo nel buio degli anfratti più nascosti della cantina per tornare con una vecchia bottiglia.

Un giorno uscì dal buio con una bottiglie di Volnay Champans del 1964. Quella volta, un silenzio religioso prese il posto delle abituali risate. Pensai che così si beve in Paradiso.
A un certo punto la mia attenzione cadde sulla bottiglia di Champans poggiata sulla botte: era ancora piena a metà. Ammetto di aver pensato che mi sarebbe piaciuto averla, tutta per me. Non so se Jean-Pierre, guardandomi, si accorse di qualcosa; fatto sta che prese la bottiglia e me la diede: “questa ve la finite stasera a cena”.
Poi non chiedetemi perché questo vino ha un posto speciale nel mio cuore!

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