Indietro non si torna

di Raffaella Guidi Federzoni

Quando arriva novembre io comincio a soffrire. Soffro come residente montalcinese e addetta a lavori. Soffro come lettrice di pareri altrui, con alcuni dei quali sono in sintonia, con altri meno. Soffro perché arriva da qualche anno ancora più in anticipo l’assaggio delle nuove annate, che si cominceranno a vendere fra qualche mese quando già molto sarà dimenticato.

Però stavolta non ho sofferto durante la risicata degustazione del Brunello 2019 e qualche Rosso di Montalcino 2021-2022, nonostante la temperatura artica e la notevole mancanza di tante cantine cult, anzi mi sono divertita. Non solo, ho avuto l’impressione che gli stessi produttori si fossero divertiti nel tirare fuori vini che mi hanno trasmesso molta meno ansia di prestazione rispetto ad annate precedenti.

Sono circa quattro decenni che bazzico da queste parti; un tempo lungo, difficile e fortunato che mi ha permesso di crescere come essere umano e vinoso. Sono in parte tutt’ora straniera in terra straniera e forse questa situazione mi aiuta a restare distaccata e non troppo compromessa dalla montalcinità come sindrome.

Tanto è stato scritto e tanto è stato inventato perché lo storytelling conta, non la verità. Non sono certo io colei che riporterà un mito alle dimensioni reali; con tutta sincerità non mi interessa, la storia la fanno i vincitori e il distretto di Montalcino è pieno di vincitori con qualche perdente sparso.

A me importa solo salutare senza rimpianti un anno [o quaranta] che ha visto di nuovo consolidare la produzione di un distretto così particolare dal punto di vista commerciale e anche qualitativo. Questo nonostante i fucili puntati, i pelouovisti, le prèfiche, gli uccelli del malagurio, i palati enofighetti del terzo millennio, gli analisti di tendenze e gli sgomitatori della comunicazione.

Scrivendo che mi sono divertita durante gli ultimi assaggi voglio significare di come ormai sia più rilassata quando bevo il sangiovese di Montalcino, sia esso Brunello o Rosso Doc; c’è uno stile che sposo in pieno e che riconosco annata dopo annata: elegante, fine, timido all’inizio e a volte austero, persino terroso, ma che lentamente svela complessità al di là del frutto, della rosa delicata, delle erbe aromatiche, della menta e della liquerizia. Un’identità che è casa mia.

Ci sono altre interpretazioni più distanti dal mio sentire: troppa concentrazione, eccesso di legno che no, non se ne va, pesantezza e possanza da pugile, non da ballerina. Oppure riscontro la scarnificazione, accompagnata dalle ali isteriche di una volatile presuntuosa da New Age. Nel primo caso si tratta di nostalgia dell’effimero, nel secondo di volontà barricadera.

Però indietro non si torna.
Passate sono quelle stagioni del secolo scorso, abbastanza prevedibili in termini climatici, facili in quelli commerciali; la produzione era minore, le aziende poche decine, la clientela di nicchia ma costante. Oltre che i prezzi a volte ridicolmente bassi e alla portata di molti.

Indietro non si torna, né come stabilità climatica, né come prezzi ahimé. Nemmeno, e soprattutto, come qualità diffusa, lo scrivo senza vergogna. Ci sono volute due o tre generazioni per riuscire a cavalcare sul serio il purosangue del sangiovese di qua. Ora i figli o nipoti o i nuovi arrivati con un bagaglio di conoscenza [e umiltà] acquisito altrove, sanno meglio come muoversi e si divertono perché appassionati e motivati, oltre che ricompensati.

Non è certo tutto rose e fiori, non sono convinta né della compattezza né della lungimiranza degli attori umani su questo palcoscenico; lo sono molto di più a riguardo dell’indiscutibile vocazione di questo distretto e del vitigno ivi radicato da secoli. Certo è che nella storia dell’enologia italiana, e direi internazionale, Montalcino rappresenta un caso a sé.

Lo sviluppo della conoscenza scientifica specializzata, la nascita e crescita della stampa di settore, la crisi delle città e il desiderio di tornare in campagna, l’ecologia, la sostenibilità, ecc. possono essere fattori coincidenti, così come investimenti stranieri che hanno posato l’occhio su questo fazzoletto di terra che ha un passato importante e radicato da secoli. L’hanno fatto così bene che quello che un tempo era a portata di portafogli “normali” ora è irraggiungibile.
Un bene o un male?

Non ho risposta, so solo che indietro non si torna. Il Brunello è sulla mappa internazionale, anche dove nemmeno si sa se è prodotto in Italia; è diventato un brand appetibile, ma conserva in gran parte la sua territorialità anche in termini di chi lo fa.

Ah, un’ultima argomentazione prima di dare spazio al mio consueto elenco di aggettivi affibbiati a ciascun vino assaggiato: grazie al cielo sono tornati allo scoperto i tecnici specializzati i cui nomi nel passato recente venivano taciuti dai produttori, per timore di essere tacciati di manipolazione stregonesca.

Agronomi ed enologi di nuova generazione sono molto meno invasivi dei loro predecessori superstar, possono aiutare a mantenere una direzione e tenere sotto controllo vigna e cantina senza abbandonarsi all’approssimazione o all’ingordigia. Non ci sono più leader assoluti, un anno quella è la cantina di riferimento, un paio dopo ne arriva un’altra e così via.

A me non dispiace l’avvicendamento sul podio, ancora di più piace che ci siano voci diverse e nuove. Quel che conta è la preziosità di un patrimonio storico, geografico e umano difficilmente ripetibile altrove.

Brunello di Montalcino 2019

PRE-PUBERALE – CLASSICO MODERNO – DEBOLE – RUSTICO – MILANO DA BERE – CALIBRATO – PROMETTENTE – SOMMESSO – OPULENTO – AGONIZZANTE – INTELLETTUALE – APPARISCENTE – RASSICURANTE – IMPECCABILE – MARATONETA – ALTOBORGHESE – ADOLESCENZIALE – DELUDENTE – SPORCO – AMBIZIOSO – FUORICLASSE – OVVIO – PARADIGMATICO – TRASCURABILE – PIACIONE – ACCADEMICO – FORASTICO – CESELLATO.

Rosso di Montalcino

INSODDISFACENTE – SORPRENDENTE – INESPRESSO – STUDIATO – INDISCUTIBILE – INTERROGATIVO.

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