A secco di Prosecco

di Faro Izbaziri

Sere fa ho incontrato per caso in un locale un produttore veneto di vini veneti: un tipo coerente. Gli ho fatto qualche domanda di prammatica (ma che è poi ’sta prammatica?). Che uve coltivasse, come vinificasse, come affinasse; la solita zuppa.
Sulle pratiche agronomiche è rimasto sul vago; diciamo che ha mantenuto un certo riserbo sul diserbo.

Ci ripensavo stamattina, portando fuori il simil-labrador della mia figliastra, con il quale ho fatto una lunga caneggiata*. In Veneto quasi tutti producono vini veneti. Scrivo quasi perché, con l’esplosione della moda del Prosecco, che oggi è richiesto anche da molti wine-bar di Amaltea (una delle lune di Giove), si fanno vini veneti anche in Trentino, in Friuli, e fors’anche in Austria e Montenegro.

Dovrei essere fiero del successo internazionale della tipologia, avendo io, fin dalla nascita, cittadinanza italiana. Eppure c’è qualcosa nel Prosecco che frena il mio entusiasmo patriottico.

Sarà che nel Lazio, dove io risiedo, non se ne produce; almeno a mia conoscenza. Sarà che diffido delle mode, come tutti quelli che si credono originali (cioè il 90% della popolazione).

Sta di fatto che di Prosecco non ne bevo. E sì che nel recente passato ne ho provati di ottimi, a cominciare dalle stilizzate prove di Luca Ferraro e passando per gli specimen di Vettori, Marchiori e altri.

È una banale faccenda di gusto: “il gusto non è oggettivabile secondo i principi aristotelici dell’oggettivamente non-soggettivo e dell’individuale scisso dal sapere della cosa in sé”, come scrive con acume Nicola Perullo nel suo “Essere vicini del vino, possibilmente sullo stesso pianerottolo” (Slow Food Editore, 2024).

Senza contare che non pochi Prosecco contengono tracce di zorzopilene (chiamato giorgiopilene in altre parti d’Italia), un composto chimico innocuo per la salute fisica ma stimolatore della tendenza all’uso dei diminutivi-vezzeggiativi (prosecchino, mangiarino, bicchierino, attimino, otorino), tendenza dalla quale rifuggo.

Per gusto personale il vino, inteso come liquido senza residui di anidride carbonica, non mi garba molto con la presenza di anidride carbonica. Perfino i più augusti Champagne, pur nell’ammirazione cerebrale che mi procurano, non mi scaldano il muscolo cardiaco.

Unica eccezione, i più modesti vini frizzanti rossi: i Lambrusco, i Gragnano, i Gutturnio, le Barbera piemontesi o oltrepadane.
Quelli li bevo, e talvolta li tracanno, li sgargarozzo proprio.

E insomma, l’altra sera amici mi chiedono se avessi del Prosecco in cantina. Mi pareva di sì, in qualche anfratto. Scendo, controllo, rovisto. No, niente da fare.
Sono a secco di Prosecco.

  • passeggiata con il cane

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