Bâti pour l’eternité

di Fabio Rizzari

Come scrive giustamente Jacopo Complain Bargello nel suo “Dove, come e perché bere Latour”* (1966), “non si può stappare un Latour, anche di piccola annata, e berlo immediatamente. È criminale. Occorre come minimo una mezza giornata di areazione, se basta. E spesso non basta”.

Me ne sono accorto a mie spese – a nostre spese, dal momento che stavo conducendo una masterclass su Bordeaux e insieme a me c’erano una ventiseina di partecipanti – lunedì scorso, quando ho aperto e decantato un Latour 2008 facendolo servire dopo “sole” due ore.

Non in riduzione ma chiuso ermeticamente, presente nel colore e nel fisico ma su un altro pianeta come profumi e sapore, questo 2008 ha mostrato un 32simo del suo reale valore. Mi sono prodigato a illustrare i pregi di Château Latour, che ho definito agli astanti “come il Partenone, di forme classiche e perfette, luminoso”, ho atteso che il vino dicesse qualcosa, anche solo una parola o una sillaba.
Niente. Mutismo assoluto.

A fine serata ne è avanzato un quarto di bottiglia, che ho riportato a casa. L’ho richiusa con uno di quei tappi con pompetta superiore per togliere un po’ d’aria (efficaci più o meno all’8%) e l’ho piazzata in frigo.

Morale: quando si è finalmente deciso a tornare sulla Terra e ad esprimersi?
Dopo cinque giorni. Dopo. Cinque. Giorni.
Ieri sera era un vero Latour, finissimo nella grana tannica, arioso, con una sventagliata di aromi di menta da far impallidire Brooklyn, la Gomma del Ponte.

Di Latour si può dire che è “bâti pour l’eternité”, costruito per l’eternità, e a ben guardare non si riesce a tutt’oggi a trovare un Latour – se ben tenuto – davvero ossidato, da qualunque vendemmia provenga.
Fosse anche il 1833.

  • seguito dal fortunato “Con chi bere Latour”, 1969

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