Temi del confine – confini vinosi

di Fabio Rizzari

Da diversi anni ho in elaborazione un progetto sul concetto di confine, buttando giù testi che idealmente dovrebbero confluire in un libro che abbia una qualche forma di organizzazione interna.
Per il momento si tratta di materiali disordinati, sui quali lavoro a ritmo sincopato.
Oggi pubblico qualche frammento sul vino, oggetto/soggetto sul quale intendo produrre molto di più nei prossimi 65/70 anni.

Premessa
Il vino è un campo di elezione dei fenomeni liminari. Nessun cartografo, nessun tecnico del catasto in buona fede potrebbe negarlo. La natura proteiforme del vino, che disorienta i più autorevoli critici planetari e talvolta ne ridicolizza l’opinione, ne fa il soggetto dai mille confini: esplorati e inesplorati.
In virtù di questo, anche procedendo per temi caotici, occorrerebbe una trattazione enciclopedica per sistematizzarne una parte sia pure infinitesima.
Ciò mi permette una libertà di manovra ancora più grande: posso scegliere a mio capriccio alcuni temi enoici, trascurandone una fetta grande come l’Australia.

Il caso del limite settentrionale/altimetrico
Per un fenomeno che l’esperienza degli agronomi, dei produttori, dei commentatori navigati restituisce in modo coerente, i vini che si ottengono da vitigni coltivati all’estremo settentrionale o altimetrico della loro possibilità di sopravvivenza sono spesso i migliori che quel dato vitigno può donare.
Rileggendomi, non è molto chiaro. Riscrivo in altra forma: i migliori bianchi da – per dire – uve chardonnay vengono dalle aree più nordiche di Francia, cioè Borgogna (segnatamente Chablis) e Champagne.
I migliori rossi da uve nebbiolo dalle aree più nordiche del Piemonte e dalle zone montagnose della Valle d’Aosta e della Valtellina.
Il dato dell’altimetria è in speciale misura significativo da quando il cambiamento climatico ha ristretto in sofferenza i vigneti storici, costringendo i vignaioli ad arrampicarsi a quote impensabili fino a pochi anni fa.

Il perché questo accada è ampiamente descritto dalle più serie, e dunque in media noiose, analisi ampelografiche. Resta tuttavia il fascino irrazionale di un comportamento erratico tipico della pianta chiamata vite. La quale, controintuitivamente, se posta nelle migliori condizioni colturali possibili (terreno molto fertile e grasso, grande irraggiamento solare, nutrienti a sfare) dà grappoli di qualità media, quando non scarsa.
“Non sappiamo bene il perché, ma vite ha da soffrire”, diceva con saggezza Giulio “bicchierino” Gambelli, figura leggendaria nel Pantheon dei nostri vinificatori del passato.

Ed è vero, la vite ha da soffrire. Se sta bene si rilassa, privilegia l’apparato fogliare, si disinteressa quasi dei suoi frutti.
Se è testata al suo grado massimo di tensione strutturale, al confine delle sue capacità di restare in vita, dà il suo meglio.

Lascia un commento