
Vigne, Paul Ranson (1902)
di Armando Castagno
Non c’è, forse, nel mondo del vino una parola che sia insieme così spesso citata e così malintesa come “terroir”. Dai negatori dell’importanza del termine e delle sue implicazioni, gli esaltatori vengono talvolta definiti, con intenzione denigratoria, “terroiristes”. Noi, lo confessiamo, siamo tra questi. Siamo incalliti “terroiristes”.
La causa del diffuso fraintendimento risiede, verosimilmente, nella complessità del concetto, del quale sono state azzardate varie definizioni nel corso del XX secolo. Nessuna, a nostro avviso, eguaglia in precisione, sintesi e qualità quella fornita nel 1999 dall’INAO, l’Institut National des Appellations d’Origine (dal 2006 divenuto “Institut National de l’Origine et de la Qualité”, mantenendo però la sigla). Trattandosi dell’ente che sovrintende in Francia alle denominazioni d’origine, nonché alla sostenibilità dell’agricoltura, una definizione di terroir che ne provenga ha il carattere di quella che in diritto si chiama “interpretazione autentica”.
Andiamo prima di tutto al testo originale: nella definizione dell’INAO, il terroir “è uno spazio geografico delimitato, nel quale una comunità umana ha costruito, nel corso della sua storia, un sapere collettivo basato su un sistema di interazioni tra un mezzo fisico e biologico e un insieme di fattori umani. Gli itinerari sociali e tecnici così messi in gioco rivelano una originalità, delineano una tipicità e sfociano in una reputazione per un qualunque bene originario di questo spazio geografico”.
Come si vede, i fattori del terroir sono molteplici, e di conseguenza la traduzione del termine in inglese con “territory” o in italiano e in spagnolo con “territorio”, o in tedesco con “Gebiet” è lacunosa e imprecisa.

Vendemmia nel Var, Henri-Edmond Cross (1892)
Il terroir è dunque, secondo il testo, uno spazio geografico delimitato. Da cosa? – si potrebbe chiedere. La risposta è subito dopo: da una comunità umana che si senta comunità, che possieda un sapere comune, che non sia ulteriormente frammentata al suo interno. Lo spazio geografico, quindi, può essere molto vasto, oppure molto piccolo; l’importante è sempre la coesione dell’elemento umano, il fattore principale del terroir.
Non è un terroir la Borgogna, che è invece un mosaico di minuscoli terroir diversi, ciascuno con le sue collettività umane, la loro storia (“nel corso della sua storia…”), la loro attività di ricerca, il loro orientamento estetico, il loro ruolo nel mercato, e il vino che da tutto questo scaturisce, fieramente diverso da quello dei luoghi limitrofi. Sono esempi lampanti di terroir in Borgogna Gevrey-Chambertin, Vosne-Romanée, Volnay, Pommard, Meursault, Saint-Romain. Non è altresì un terroir il Piemonte, mentre lo sono a pieno titolo, all’interno della regione piemontese, la Langa del Barbaresco, la Val d’Ossola e il Roero, per citare tre dei molti prototipi possibili. E così via.
Questo sapere collettivo, che la definizione presuppone esista entro lo spazio geografico del terroir, riguarda molte cose, ma è forse il punto più nebuloso del testo: di certo, però, la comunità umana indaga, sperimenta, studia soprattutto il proprio luogo, le possibili interazioni di questo – considerandone tutto: geologia, clima, biodiversità e conformazione – con un mezzo biologico quale la pianta, e nel nostro caso specifico la pianta di vite.
Da questo “primato del luogo” deriva la frequente ed errata identificazione del terroir con il solo fattore geologico, cioè con la composizione di terreno e sottosuolo; in realtà, la rete delle possibili relazioni tra luogo, fattori biologici e fattori sociologici (“umani”) è talmente complessa che la definizione sceglie di sostituire il termine “interazioni” con “sistema di interazioni”. Si tratta in definitiva di un percorso comune di coscienza e conoscenza, ben descritto dal testo con la parola “itinerari”; e il geniale “messi in gioco”, detto degli itinerari, sintetizza il ruolo fondamentale di questa ricerca nell’economia della comunità, tenuta insieme e salvaguardata anche, quando non soprattutto, dall’attività agricola in questione. Nel mondo del vino potrebbero farsi centinaia di esempi. Questi percorsi di conoscenza, lunghi e difficili, portano infine a tre conseguenze, non alternative tra loro ma tutte necessarie.
Prima: la rivelazione di una originalità. Un grande terroir è tale quando il prodotto che naturalmente vi nasce ha qualcosa di unico, legato alla specifica situazione locale, non riproducibile altrove: in una parola, all’origine. Nella letteratura francese ci sono tutti i presupposti per questa interpretazione del significato di terroir. Nel capolavoro “Dominique” (1862), scritto da Eugène Fromentin, l’autore mette in bocca al protagonista del suo (unico) romanzo la seguente, formidabile frase: «N’en déplaise à ceux qui pourraient nier l’influence du terroir, je sentais qu’il y avait en moi je ne sais quoi de local et de résistant que je ne transplanterais jamais qu’à demi, et si le désir de m’acclimater m’était venu, les mille liens indéracinables des origines m’auraient averti, par de continuelles et vaines souffrances, que c’était peine inutile» (i corsivi sono nostri).

Il raccolto in Provenza, Eugène Fromentin (1875)
Traduciamo: «Senza offesa per coloro che negano l’influenza del terroir, sentivo che vi era in me un non so cosa di locale e di resistente, che non avrei mai potuto estirpare se non in parte; e se mai mi fosse venuto desiderio di acclimatarmi, i mille legami inestirpabili delle origini mi avrebbero avvisato, attraverso continue e inutili sofferenze, che si trattava di una fatica inutile».
Questa parte del testo dell’INAO sottintende, inoltre, due cose. Una è la tutela fattuale dell’ambiente: non avrebbe né senso né futuro l’affidare l’originalità del vino a un luogo di origine in precarie condizioni di biodiversità, vitalità, salubrità e integrità. Pratiche agricole sensate e prudenti sono alla base del mantenimento in vita di un terroir: sono la sua polizza di assicurazione. L’altra è la nitida strizzata d’occhio alle pratiche poco invasive e poco interventiste in cantina: una enologia troppo spinta rappresenta, in questa visione, un diaframma artificioso frapposto tra l’origine e il bicchiere che portiamo alla bocca: un diaframma che rischia di spezzare il legame tra luogo e vino che è alla base del terroir, fornendogli valore e senso.
Seconda conseguenza è, testualmente, la delineazione di una tipicità: è il punto più sorprendente della definizione. Applicata alla produzione del vino, essa chiama infatti in causa lo sviluppo di una preferenza di gusto, attiva, svincolata dai fattori ambientali e naturali con cui la comunità umana non può, del resto, negoziare. Così, per una vasta serie di possibili ragioni (un’eredità storica vera o asserita, un posizionamento strategico sul mercato, eccetera), il vino di due terroir limitrofi e simili dal punto di vista ambientale può assumere, per le scelte condivise della comunità, caratteri diversi, e in qualche caso diametrali.
Ad esempio, il già citato mosaico borgognone propone a brevissima distanza coppie di vini di opposta polarità, tanto evidente da sembrare programmatica: il Marsannay e il Fixin, il Vosne-Romanée e il Nuits-Saint-Georges, il Volnay e il Pommard. Non si tratta, si badi bene, di stravolgere il contributo ambientale snaturando il vino a fini mercantili, ma di esaltare ed enfatizzare alcune caratteristiche attendibili che il vino può avere, operando delle scelte in questa direzione.

La vigna rossa a Montmajour, Vincent Van Gogh (1888)
Provando a fare anche qui un esempio pratico, il Chianti Classico del comune di Radda in Chianti è pressoché inconfondibile con quelli dei comuni limitrofi, anche provenienti da condizioni ambientali non dissimili (per esempio a Gaiole, o a Castellina), in quanto scelte attive in tema, ad esempio, di posizionamento, densità e conduzione dei vigneti, scelte di cloni – o individui per selezione massale – e portainnesti, giorno di vendemmia e tecniche di vinificazione portano spesso all’esaltazione, in quei vini, degli elementi di freschezza, acidità, trasparenza: gli elementi-base del terroir di Radda.
Ultima conseguenza – e qui l’INAO si ricorda di noi, compratori e appassionati – è la reputazione che il vino di terroir finisce per conquistarsi nella competizione del mercato. Tutti gli sforzi compiuti lungo generazioni per la messa a punto di un vino originale e tipico, sembra sostenere il testo, sarebbero inutili se il vino non fosse anche buono, se non legasse insomma al proprio nome concetti positivi (gradevolezza, longevità, etica produttiva, prestigio, spontaneità, eccetera).
Il quadro è, finalmente, completo. Il vino di terroir si presenta come il prodotto – unico, originale, irriproducibile, tipico, genuino e buono – di un coagulo di vocazione e gusto estetico, intelligenza e verità, ricerca e riflessione, rispetto e savoir faire: quanto di meglio le comunità umane sono riuscite a mettere insieme nella storia (del peggio che hanno messo insieme non è qui la sede per parlare).
Visto così, se ne converrà, il vino travalica la sua antica – e sacrosanta – vocazione di bevanda popolare e finisce per rappresentare, o meglio per poter rappresentare, il fulcro di un autentico sistema culturale. Merita per questo una tutela particolare nel contesto dell’agroalimentare: la corretta definizione di terroir ci conferma come il vino possa ambire a trasformarsi in un testo, un testo letterario che abbraccia materie diverse, tutte importanti. Leggerlo come versione liquida di un luogo e di un contesto sociale, e imparare ad amarlo anche da questo punto di vista, non può che arricchirci. A patto di operarne un consumo vigile, attento, persino prudente: il vino, che sia di terroir o meno, contiene elementi insidiosi per la salute, e saperne godere in modo intelligente è una forma di rispetto che non merita solo il nostro corpo, ma anche, a nostro modo di vedere, il vino stesso.

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