Il dubbio Rinascimento del vino italiano, uno sguardo dal passato

di Fabio Rizzari

La mia ricostruzione delle vicende stilistiche, prima ancora che storiche, attraversate dal vino italiano tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Duemila (https://accademiadeglialterati.com/2022/02/02/il-dubbio-rinascimento-del-vino-italiano/), è in modo ovvissimo una visione personale. Visione personale che poggia però su diversi elementi credo reali, chiamiamoli muri portanti dell’analisi critica:
bruschi abbandoni delle tecniche agronomiche ed enologiche precedenti, adozione di tecniche agronomiche ed enologiche importate dall’estero (soprattutto dalla Francia), estirpazioni di vigne storiche e relativi vitigni locali, messa a dimora di distese di uve cosiddette internazionali, abbracciamento di uno stile risolutamente più estrattivo e potente e in molti casi più piacionico.
Intorno e sopra e a fianco di questi muri portanti posso aver costruito strutture teoriche più discutibili, ma il nucleo interpretativo mi pare tuttora reggere.

Rovistando in cartelle dimenticate di un mio vecchio computer ho trovato un messaggio del 2008 di un produttore italico che revoca in forse – avrebbe detto il mio caro Giampaolo – alcuni spezzoni della mia lettura.
Ben venga una revisione, mi dico. Ne riporto il testo più sotto, che da quanto si evince (“indirizzando a te il primo post della mia vita”) deve essere stato a suo tempo pubblicato.

Ammetto con una sfumatura di imbarazzo di non riuscire a ricostruire né le circostanze della pubblicazione né il nome del produttore stesso, il file non è firmato e la mente di un ultrasessantenne tende a trascolorare nemmeno tanto lentamente da un limpido lago a una palude pontina.
Me ne scuso con il produttore stesso: dovesse passare da queste parti alterate, spero si riconosca e mi rinfreschi gli stanchi circuiti neuronali. Ciò che conta è quanto viene affermato, di sicuro degno di interesse.

Caro Fabio, prima di iniziare concedimi due brevi premesse.

1) Non conosco a sufficienza il mondo dei blog e tanto meno il suo galateo, per cui – indirizzando a te il primo post della mia vita – spero di non urtare la sensibilità di altri blogger con i quali sono in ottimi rapporti (…)

2) Ci conosciamo e nutriamo – non da ieri – reciproca stima. Quindi non prendere le considerazioni che seguiranno come quelle di un professorino dalla penna rossa (e blu).

Fatte queste precisazioni, credo che il tuo post intitolato “Amaro stil vecchio” sia pienamente condivisibile (a questo proposito scrissi qualcosa di molto simile nel lontano 1999), ma meriti anche alcune precisazioni o riflessioni, mettila come vuoi.

Partendo in quarta, più che di un’ispirazione/caricatura del “grand vin” bordolese (che di sicuro c’è stata e ancora oggi in parte esiste), credo che si debba parlare anche e soprattutto di un parto stilistico prettamente italiano.

Rileggendo un po’ di storia, lo stile bordolese – quello classico, con cui iniziarono a confrontarsi per primi i californiani e che ha in Pontallier e forse Chevallier i suoi ultimi rappresentati – non è lo stile bordolese che oggi conosciamo. Era anch’esso uno stile amaro (a volte), ma per ben altri motivi (principalmente scarsa maturazione delle uve).

Lo stile bordolese di rollandia/parkeriana ispirazione – oggi più conosciuto – è cosa invece più recente (almeno se vogliamo parlare in termini numericamente significativi). E volendo dare delle annate di riferimento, direi tra il 1994 e il 1997.

A quell’epoca, però, le figure enologiche italiane di spicco che avevano concrete e consolidate frequentazioni bordolesi e che potevano quindi trarre ispirazione dai modelli allora presenti sul mercato erano pochissime. Penso a Tachis, che non a caso ha nel Sassicaia e nel Tignanello d’antan i suoi vini più rappresentativi, a Niccolò d’Afflitto, credo uno dei primi italiani se non il primo a laurearsi all’Università di Bordeaux, e a Vittorio Fiore, Gabriella Tani, Marco Pallanti, Federico Staderini e Alberto Antonini, che a inizio anni ’90 incontrai più volte nella stessa università (a dire il vero loro avevano iniziato a frequentare i corsi di aggiornamento qualche anno prima).

Se altri ce ne sono stati (dimenticavo per esempio Maurizio Zanella), di sicuro sono stati pochi.

Guardando invece in casa nostra, già diversi supertuscan di altissimo livello (penso al Percarlo 1985, al Flaccianello, al Fontalloro, per non parlare del Cepparello e del Cabernet 1990 di Paolo De Marchi) erano allora delle iniezioni di struttura spaventose (in senso buono) se si pensa a quella che era la media qualitativa e stilistica di allora. E il successo che ebbero fu un segnale ben preciso sulla direzione in cui andare.

Tuttavia, l’evento a mio parere più significativo è di alcuni anni più recente e coincide con l’uscita del Cabernet Sauvignon 1992 di Regaleali, che attirò l’attenzione sull’enologia siciliana e che insieme allo Chardonnay (allora anche in versione Botrytis e Vendemmia Tardiva) contribuì e non poco – prima che il nuovo stile bordolese si affermasse e in un momento in cui il 99% degli italiani nemmeno sapeva cosa fosse Bordeaux – ad imporre negli anni successivi il modello del vino iperestratto, alcolico e palestrato

E in questo, chiaramente la stampa ebbe il suo ruolo non trascurabile.

Senza con questo volerci giustificare (e come vedi mi metto anch’io nel calderone), bisogna però anche cercare di contestualizzare. All’epoca, infatti – e tranne rarissime eccezioni (una, due?) – quei pochi che scrivevano di vino in modo professionale avevano scarsissima cultura in tema di vini internazionali e – senza offendere nessuno – anche una scarsa esperienza in fatto di vino italiano.

Ai tempi, e molto più di oggi, si viveva il vino con entusiasmo e se vogliamo anche con quel pizzico di positiva “naivetè” che oggi in parte rimpiango. In altre parole – e i produttori con noi – eravamo come bambini proiettati improvvisamente nel paese dei balocchi, e sappiamo benissimo che in uno stato d’animo simile, messi di fronte a una distesa inesauribile di torte alla crema, ci sono buone probabilità che la cosa ti esalti.

Del resto, lo stesso Veronelli, che io ricordi, ha sempre sostenuto i vini tradizionali, ma allo stesso tempo ha sempre guardato con grande interesse a questa nuova generazione di vini e di produttori.

Poi, con il tempo (diciamo seconda metà degli anni ’90), arrivarono i primi distinguo e le prime prese di posizione da parte di una ristretta minoranza.

Ma ormai il meccanismo era in movimento e di fronte alla risposta positiva di mercati importanti – dall’Europa agli Stati Uniti – gli eventi non potevano che precipitare e così è stato. Il successo – come sappiamo – è una brutta bestia e se non hai la preparazione e/o il coraggio di guardare avanti e di metterti in discussione i risultati alla fine sono quelli che abbiamo sotto gli occhi. Per fortuna, come dici tu, un po’ meno che in passato, almeno in alcune zone. Ma ci è voluto tempo e non è detto che la lezione sia stata imparata.

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