O “del momento giusto”
di Giancarlo Marino
Prima ancora di mettermi a scrivere questo articoletto sapevo già come lo avrei concluso: non dobbiamo aspettare il momento giusto per fare qualcosa; facciamolo ora, subito, perché il momento giusto non esiste. Sono infatti convinto che rimuginare troppo a lungo su una decisione da prendere spesso non aiuta a prendere quella giusta al momento giusto.
Dopo aver letto quanto ho scritto, probabilmente avrete qualche elemento in più per fare la cosa giusta. Ma resto convinto che sia meglio sbagliare seguendo il proprio istinto che fare la cosa giusta solo perché lo abbiamo letto da qualche parte.
Le righe che seguono sono quindi dedicate a quei due o tre lettori che non si sono lasciati convincere dalla premessa.
Il tema è quello della scelta della annata di un vino, dal momento che avete deciso che questa sera si beve Borgogna *.
Potrebbe essere utile, per cominciare, ricordare la nota regoletta borgognona secondo cui si può aprire un rosso di Borgogna nei suoi primi tre o quattro anni di vita**, di lasciarlo tranquillo tra il quarto e l’ottavo anno, per tornare quindi ad aprirlo dal nono anno in poi. Potrebbe, dicevo, ma le cose non sono mai semplici come sembrano, e lo sono ancora meno in Borgogna, dove la regola è l’eccezione. Niente regolette, quindi, ma solo qualche impressione ricavata dalle prove sul campo sulle ultime quindici annate in commercio.
1998
Probabilmente un appassionato di scuola anglosassone consiglierebbe di attenderne ancora l’apertura. Non avendo la medesima passione per tutto ciò che è decadente, il mio consiglio è invece quello di non indugiare, village o grand cru che sia. Soprattutto i vini di rango superiore (grand cru e 1er cru di nobile origine) e dei migliori produttori, continueranno a vivere gloriosamente negli anni a venire, avendo ormai raggiunto, dopo aver superato tutte le salite, le discese e gli ostacoli disseminati lungo il percorso, una tranquilla velocità di crociera. Non penso però che miglioreranno; modificheranno semmai il loro profilo accentuando, presumo, quel carattere autunnale che è proprio dell’annata. Attenda, se vuole, chi ha amato Les Feuilles Mortes di Prevert e non teme il rischio che i ricordi si trasformino in rimpianti.
1999
Solo un anno in più, ma una storia completamente diversa. Le denominazioni regionali e comunali vivono oggi una fase di splendore, integro e vitale, compiuto e consapevole. Per grand cru e 1er cru la faccenda si complica. Vini come Chambertin di Rousseau, Bonnes Mares di Roumier, Musigny di Comte De Vogue, Nuits St. Georges 1er cru Les St. Georges di Gouges, chiedono di poter riposare in cantina ancora qualche anno per liberarsi dell’ingessatura di una annata “grande e grossa”. Vini come DRC Romanée Conti e Romanée St. Vivant, Grands Echezeaux di Engel, Chambolle Musigny 1er cru Les Amoureuses di Roumier o, per tornare a i vini dal prezzo umano, i Volnay e Pommard 1er cru di Voillot, già da qualche anno brillano come i fuochi di artificio di fine anno e non c’è motivo di attendere oltre.
2000
Annata “tenera”, una di quelle per le quali la regoletta della fase di chiusura tra il quinto e l’ottavo anno avrebbe ancora meno senso, dato che non ricordo di aver mai trovato un vino che abbia attraversato un periodo di chiusura. Perfino uno degli esemplari di maggiore struttura e normalmente bisognoso di lunga attesa, DRC La Tâche, è rimasto sempre in servizio permanente effettivo, non avendo ma smesso di diffondere effluvi oppiacei come neanche nella fumeria cinese di C’era una volta in America. Tranne poche eccezioni (tra cui il citato La Tâche), i rossi del 2000 sono acquerelli di fine ’800: pochi, sapienti tratti che stimolano l’immaginazione piuttosto che indurre alla contemplazione del dettaglio. Da stappare senza remore e ritegno, con animo sereno e rilassato, nessun vino escluso.
2001
Annata eterogenea come poche altre. I miei assaggi hanno alternato grandi vini (concentrati per lo più in Côte de Nuits) a vini deludenti (per lo più in Côte de Beaune). Ma è annata tipicamente “didattica”, per gli amanti del terroir: l’aderenza territoriale è in questo caso così evidente che più di qualche appassionato (tra cui il sottoscritto) ha lungamente preferito questa annata alla successiva, oggi posso dire sbagliando. I vini sono arrivati pressoché tutti all’apice dell’evoluzione e le rare eccezioni (alcuni vini vinificati a grappolo intero, tra cui ne ricordo alcuni di Dujac e Leroy) non giustificano una attesa ulteriore anche se probabilmente avranno lunga, se non lunghissima, vita.
2002
La differenza con il 2001 la sta facendo, dopo oltre dieci anni di bottiglia, la maggiore purezza e integrità del frutto. Se la potenzialità dei vini del 2001 è ormai abbastanza chiara, quella dei vini del 2002 non lo è ancora, almeno secondo me, anche se è ormai evidente che si tratta di annata superiore. Ricordo diverse bottiglie di Clos des Lambrays, affascinante e fruibile fin da subito ma in continua, splendida evoluzione, e ugualmente i grand cru di Gevrey-Chambertin di Rossignol-Trapet. Ma anche vini come La Romanée di Comte Liger-Belair o come il Clos Vougeot v.v. di Château de la Tour, che hanno richiesto qualche anno di attesa e che stanno ora entrando in età matura. Per finire con vini come lo Chambertin di Rousseau, con margini impronosticabili di ulteriore progresso. Propendo per stappare di tutto, anche se potrebbe capitare di trovare qualche vino ancora non all’apice dell’evoluzione e ce ne faremmo, nel caso, una ragione.
2003
È probabilmente l’annata di cui mi riesce più difficile parlare, per il timore di dire fesserie. Nei primi anni la maggior parte dei vini mi hanno ricordato più il Rodano che la Borgogna, e ho smesso quasi subito di berne. Più recentemente mi è capitato di provare qualcosa (da ultimo un Echezeaux di Confuron-Cotetidot) e, pur trovando mitigati gli eccessi di gioventù e il timbro dell’annata, è stata rinforzata in me la convinzione che si tratti della annata meno “borgognona” tra quelle considerate. Però (c’è sempre un però in Borgogna), molti produttori in là con gli anni, di cui mi fido ciecamente, mi hanno detto che il profilo dell’annata 2003 assomiglia molto a quello della mitica 1959. Chi, tra i più giovani e i più ottimisti, ha avuto la fortuna e il privilegio di bere recentemente qualcosa di quella annata, avrà già deciso di conservare in cantina qualcosa del 2003. A parte le aperture per “scienza e conoscenza”, personalmente non aprirei nulla.
2004
Stappare, stappare, stappare. Mi è capitato, assai raramente, di trovare qualche 2004 ancora non completamente espresso, ma c’è più di un buon motivo per non attendere ancora. Il problematico andamento climatico ha portato in dote una scarsa maturità dell’uva e ha così “timbrato” il profilo aromatico dei vini. Tra i termini più usati per descriverne i profili aromatici, troverete quelli di cimice, di geranio, di minestrone, di cicoria (nelle versioni nature e ripassata in padella…), e via di seguito sulle ali dell’immaginazione. Il dato certo è che le note verdi hanno contraddistinto, dove di più dove di meno, tutti i vini. Questo non vuol dire che sia impossibile trovare qualcosa di degno (dovendo spendere una parola buona per un produttore, lo faccio volentieri per il Domaine Mugneret-Gibourg), ma la mia sensazione è quella che il trascorrere del tempo non potrà migliorare i vini. Di qui il mio consiglio di affrettarsi a stappare, se possibile senza grandi aspettative.
2005
Probabilmente l’annata più controversa di tutte. L’andamento climatico è stato quello che i produttori sognano in tutta la loro vita. Non un dettaglio fuori posto. Gli assaggi dalla botte li ricordo come fosse oggi, non un solo vino meno che buono, anche presso produttori solitamente non eccelsi. Il Pinot Nero, però, è vitigno esuberante e prepotente: nelle condizioni ottimali tende a esagerare e, così facendo, stende una coltre quasi impenetrabile sulla parte più intima e nascosta del DNA dei vini, quella che racchiude il legame con il pezzo di terra da cui provengono. Per descrivere sinteticamente la situazione, qualcuno ha acutamente parlato di grandissima vendemmia, di vini forse ugualmente grandi, ma di “Borgogna” non altrettanto grandi. Io sono parzialmente d’accordo, nel senso che pur davanti alla evidenza di molteplici assaggi sono ancora convinto della non “irreversibilità” della situazione. Come non ricordarsi, infatti, di alcuni vini totalmente inespressivi, magmatici e perfino scontrosi e antipatici all’apertura, che allo scoccare della mezzanotte, dopo molte ore di ossigenazione, invece di scappare come Cenerentola hanno lasciato intravedere segni incontestabili di grandezza assoluta? Qualche amico alterato ha condiviso con me lo stupore nell’ammirare l’inarrestabile cavalcata delle valchirie del Musigny di Comte de Vogüé dopo oltre sei ore dall’apertura della bottiglia, e potrà confermare. Molti altri amici, alterati e non, hanno recentemente condiviso altrettanto stupore nel godere il DRC Romanée St. Vivant, addirittura capace di iniziare il suo valzer travolgente fin dall’apertura della bottiglia. Si tratta di eccezioni? Può essere, ma io sono ancora convinto che si tratti solo di avere pazienza, tanta pazienza, un po’ con tutti i vini del 2005. Provate quindi a stappare qualche village, con l’idea di concedergli un po’ di ossigenazione se il primo assaggio lo dovesse suggerire; attendete invece qualche anno per l’apertura di bottiglie più ambiziose, perché sono ancora convinto che i 2005 che avete in cantina sono diamanti preziosi e unici. E se proprio non sapete resistere alla tentazione di farvi una idea personale dell’annata, aprite la bottiglia con largo anticipo, versate un po’ di vino in un bicchiere e seguitene l’evoluzione: non appena vi sembrerà imminente l’apertura al pubblico, riversate il vino nella bottiglia, ritappate, e attendete il momento del servizio. Se non la pensate come me, potrete comunque chiamarmi e potrei anche acquistare quello che vi rimane.
2006
Dall’esuberanza dei 2005 alla compostezza e alla aderenza territoriale dei 2006. Non mi sembra di aver mai trovato vere e proprie chiusure e ora, dopo otto anni, bere village e 1er cru non sarà mai una scelta sbagliata, anche nel caso in cui si incontrasse un vino che non ha ancora completato la sua evoluzione (specie su Pommard, Nuits St. Georges). Sui grand cru bisognerebbe valutare caso per caso ogni bottiglia, aprendo questa e conservando quell’altra. Non potendo fare un elenco completo, una buona soluzione potrebbe essere quella di attendere i vini delle zone tradizionalmente dalla evoluzione più lenta (Gevrey Chambertin, Clos Vougeot, Corton) e provare qualcosa su Chambolle Musigny, Volnay e Vosne Romanée (molti Echezeaux sono oggi pienamente godibili).
2007
Annata sulla cui grandezza è ancora viva la discussione tra gli appassionati. Chi la considera tra le più sottovalutate e chi, pur apprezzandola, non la ritiene all’altezza delle migliori (la maturità fenolica è stata, oggettivamente, appena sufficiente). Credo si possa inoltre dire che la Côte de Nuits ha dato risultato sensibilmente superiori alla Côte de Beaune. Nessuna discussione, invece, in ordine alla loro apertura. Tranne le ovvie, seppur rare, eccezioni (siamo in Borgogna, bellezza!) si tratta di vini che sono stati deliziosi da bere fin da subito, lo sono ancora e manterranno questa loro fisionomia per qualche anno ancora, almeno fino a quando il frutto manterrà la sua brillantezza. Perfino vini generalmente restii a concedersi in gioventù (leggi, ad esempio, lo Chambertin di Rousseau) si sono mostrati espressivi, gioviali, espansivi già nei primissimi anni. Altro discorso, comunque, è quello della parziale delusione, secondo me comprensibile, per chi da uno Chambertin di Rousseau si attende il rigore di una cattedrale romanica. È probabilmente una delle annate che meglio e più facilmente si bevono oggi e che assai raramente deludono.
2008
Se si continua amabilmente a discutere dei vini del 2007, per quelli del 2008 sono state segnalate addirittura baruffe tra amici di vecchia data. È annata in cui il marchio dell’acidità è impresso a fuoco. Il problema, secondo me, non è però quello della seppur viva acidità (e della conseguenti sensazioni di “durezza e ingessatura”), quanto quello della struttura dei vini. Prendete due atleti, ugualmente ben allenati: il centometrista ha una massa muscolare imponente, mentre al maratoneta potete contare una per una le fasce muscolari filiformi. Ecco, i vini del 2008 potrebbero assomigliare al fisico asciutto e nervoso del maratoneta. Tutta questo si traduce in un avvertimento: estote parati. Pur nella discussione accesa, sembra sia stato trovato un accordo sulla considerazione che, una volta tanto, i vini della Côte de Beaune (premio della giuria ai Pommard) hanno avuto una riuscita complessivamente superiore a quelli della Côte de Nuits. E proprio in Côte de Beaune andrei quindi a scegliere qualche vino da bere oggi, magari un Pommard, ben sapendo che si dovrebbe attendere per trovarlo a maturità. Lo faremmo, quindi, con il preciso intento di goderne come si godrebbe di un cielo invernale, sereno e limpido per il vento di tramontana. Il resto lasciatelo tranquillamente in cantina.
2009
Il rischio, con i vini di questa annata (che possiamo definire, generalizzando, calda), è stato quello di finire tutta la scorta, tale è stata fin da subito la loro estrema piacevolezza. Questo, però, non deve trarre in inganno: si tratta di vini di grande complessità e, questa volta, la nota regoletta potrebbe avere un senso, visto e considerato che grand cru e parte dei 1er cru stanno entrando in una fase di relativo letargo. Possiamo lasciarli cantina ancora per qualche anno, ma non subiremo cocenti delusioni se ne apriremo qualcuno, magari tra quelli meno strutturati. Ci consoleremo con le denominazioni regionali e comunali, decisamente sopra-performanti, nel senso che frequentemente un village vale, in questa annata, un 1er cru e quest’ultimo un grand cru.
2010
Confesso il mio amore incondizionato per la purezza di frutto dei vini di questa annata, fresca in contrapposizione a quella precedente. E quando amo davvero sono ancora più convinto che il momento giusto non esista. Quindi li bevo oggi e li berrò in continuazione, perdonando qualche rigidità e spigolosità, almeno fino a quando sentirò il rumore del chiavistello nella toppa della serratura e saprò, così, che è venuto il momento di attenderli qualche anno. Volendo bere qualcosa oggi, a quelli più saggi di me consiglio di bere preferibilmente i 1er cru, per evitare le chiusure dei grand cru e la rigidità dei village dovuta a una grana dei tannini meno fine.
2011
Una di quelle annate che venti o trenta anni fa sarebbe stata una tragedia. Le conoscenze moderne e gli strumenti a disposizione hanno consentito di produrre vini che, senza essere qualificabili “grandi”, sono comunque gradevoli e godibili nel breve-medio periodo. Non penso che seguiranno la sorte dei 2004, ma nel dubbio me li berrei subito o quasi, considerata la loro esile silouette.
2012
Risultati eterogenei. Si alternano alcune ottime riuscite e altre meno (qua e là qualche “scodata” alcolica), sempre e comunque nel rispetto cronometrico delle rispettive gerarchie. Considerata la pienezza dei vini, accade quello che non ti aspetti: diverse delle cose migliori che ho bevuto vengono da zone dove la finezza e l’eleganza del tratto non sono le caratteristiche principali (Pommard e Nuits St. Georges su tutte). Oggi non porrei limiti all’apertura, di qualsiasi vino, nell’attesa di capire se in questo anno la “regoletta” funzionerà.
E i vini bianchi? Nessun consiglio particolare, nessuna regoletta. In primo luogo perché le fasi di chiusura nei bianchi sono in genere meno nette. E poi perché ho una ampia collezione di vini ossidati annotata sul mio impolverato taccuino (su tutte, 1999, 2003, 2006, 2009). In altra occasione potremmo parlare del rebus della precoce ossidazione dei bianchi borgognoni. Sta di fatto che la mia personale tendenza è ormai quella di berli nei primi 5/6 anni, uno per l’altro, pur nella consapevolezza che potrei perderne la fase di piena maturità. Chi ha pazienza ed è disposto a correre il rischio, oppure chi come me ha troppo vino in cantina perché acquista più di quanto beve, sappia comunque che l’evoluzione e la tenuta nel tempo dei bianchi di borgogna non è molto diversa da quella dei rossi da pinot noir, e a volte occorrono 20 o 30 anni perché raggiungano l’apice.
* Pare che bere Borgogna sia considerato oggi molto snob, à la page, un po’ da fighetti insomma. Ma noi, che se ce lo avessero detto trenta anni fa avremmo ormai comprato casa con quello che abbiamo speso in vino della Borgogna, francamente ce ne freghiamo.
**Nei primi anni l’aspetto varietale tende a prevalere sulla più intima e autentica personalità del vino (così, tanto per non parlare sempre di terroir, ché altrimenti si rischia ancora una volta di passare per fighetti). Solo quando l’esuberanza congenita del pinot noir avrà lasciato spazio al resto potremo pienamente cogliere il senso del vino. Si beva quindi un vino giovane se si apprezza e si vuole godere un grande pinot noir, si attenda pazientemente qualche anno se si vuole godere un grande borgogna. Per non sbagliare, io preferisco seguire il vino durante tutto il corso della sua vita, come un figlio, perché ogni età ci dona grande bellezza.