Roma mi fé

di Snowe Villette e Raffaella Guidi Federzoni

Dopo l’urtima cacca de cane, pestata ner mentre cercavo un posto pe’ magna a San Lorenzo, me so’ chiesta n’artra vorta “Che ce sto a fa’ qui?”. “Qui” inteso come Roma, città immortale, unica e irripetibbile (meno male pell’ irripetibile, che una ce basta e c’avanza puro). “Ce sto” ner senso che ce giro tutti li giorni e pe’ fallo ce metto na fatica bestiale, pe’ parcheggia’ che nun se trova un buco de posto che sia uno, pe’ pjà er busse che ariva quanno je pare e se je pare, che la metro nun serve le zone indove che devo d’anna’, e pei marciapiedi che sembrano zone de guera e se nun pesti na cacca te rovini la cavija drento na buca.

A sta domanda nun me so’ risposta, nun serve. Tanto ce lo so che da Roma se me sposto è pe’anna’ a Ostia o a Pomezia, e quarche vorta a giro co’ DuCognomi, ma ciò voja presto de tornacce perché sta città m’ha fatto.

E siccome m’ha fatto Roma, so’ venuta coatta. Ovvero, coatta ma estetica, ner senso che gli occhi pe’ vede’ er bello ce li ho puro io. E de bello a Roma ce ne sta più che ovunque ner monno enfame. Basta alzalli sopra la linea umana, vojo di’ sopra le capocce de quelli che me vengono davanti sur marciapiede tutto na buca e nun se scostano, che me tocca fa’ lo slalomme fra le maghine messe come je pare, o fra li cassonetti indifferenti alla raccolta differenziata ma fieri de mostra’ na lavatrice o frigo magari puro colli avanzi de Natale drento.

Se arzo gli occhi, er cielo è perfetto, anche li palazzi der centro so’ perfetti, le chiese e le fontane, le piazze e piazzette, li vicoli e vicoletti, le case daa Garbatella e i pini qui e là e in ogni dove. Se arzo li occhi vedo la Storia violenta e disumana de Roma, che cià insegnato a noi romani de fregaccene de tutto.

Questa è la differenza, a Roma nun je frega de gnente a nisuno: né a chi ce vive, né a chi ce pensa a mandalla avanti, sur serio o pe’ finta, tanto nun ce riesce.
Me dirai “Ma in tutte le grandi città ci sono problemi di traffico, infrastrutture, immigrazione clandestina, corruzione, piccola criminalità, smaltimento rifiuti”?
Eccerto che è così, le grandi città so’ tutte uguali pe’ questo, ma Roma lo è de più.

Roma cià er tira a campa’ ner DNA, che nun vo’ di’ che nun amiamo sta città, solo che nun ce frega gnente che sia così, ce basta potecce sta.

Nun so’ io che ho detto pe’ prima che Roma è na mamma, aggiungo che è come avecce la mamma sbajata, ma è la sola che ce abbiamo e quinni ce la tenemo.

Ho lasciato Roma alla fine del 1984 quando avevo ventisei anni e solo ricordi belli della mia città. Essendo nata nel 1958 ero riuscita a sfiorare come bambina la rinascita economica del dopoguerra. Grandissimi quartieri periferici costruiti su campi dove ancora passavano le pecore della transumanza, l’avvento di ricchezze enormi ed improvvise in mano a famiglie di palazzinari. L’inizio di un consumismo, anche mangereccio, che allora appena toccava i mercati rionali, pieni in abbondanza di tutto quello che forniva la stagione e niente altro. In centro si andava una volta alla settimana, un centro elegantemente popolare pieno di botteghe artigiane, perché i gioiellieri ed i pellari erano artigiani, non brand.

La Dolce Vita colpì Roma ed i suoi strascichi arrivarono ben oltre gli Anni di Piombo. Il consumismo per un po’ si chiamò “effimero”, i romani avevano voglia di dimenticare anni in cui a camminare per certi quartieri si rischiava di trovare un posto di blocco a causa dell’ultimo rapimento/gambizzamento/assassinio.

I romani, già… negli anni piano piano in tanti diventarono romani. Lo diventarono i ciociari e gli abruzzesi, i campani e i veneti. Poi lo diventarono le fantesche spagnole, ma queste solo per poco perché a casa loro si cominciò a stare meglio mentre quelle polacche rimasero portandosi dietro la famiglia, come fecero anche i filippini. A Roma continuarono ad arrivare pellegrini ed immigrati, e a volte non si riusciva a capire chi fosse cosa.

Intanto si alternavano le amministrazioni comunali, le vecchie cariatidi asfittiche furono sostituite da giovani rampanti di buona volontà. Qualcosa migliorò, come il make up rinfrescato sul viso di una matura commediante.
Arrivarono Papa stranieri, uno dopo l‘altro, i romani continuarono ad amarli, perché un romano che non ama il Papa è un romano morto che ha scoperto che il Paradiso/Inferno non esistono e quindi si è incazzato.

Io nel frattempo me n’ero andata, lasciando la famiglia, tanti amici ed un posto la cui lontananza mi ha fatto a lungo piangere e sospirar.

Da molto tempo non è più così, a Roma torno spesso ma sempre per poco. Quindi la conoscenza di quello che è diventata la mia città di origine è ormai molto limitata. Mi sembra che senz’altro si mangi meglio e più variato, senza spendere una fortuna. Mi sembra che ci siano tante più cose da comprare. Mi sembra che ci sia una movida più vivace di quella che era ai miei tempi giovanili. Mi sembra che andare da A a B, nonostante la metropolitana, richieda ore e ore peggio di una volta. Mi sembra che di romani DOC ce ne siano sempre meno, mentre sono aumentati i sopravvissuti di tante nazionalità che rubano il lavoro agli zingari. Mi sembra a volte di trovarmi in cima ad un tempio bellissimo i cui gradini sbreccati per raggiungerne la sommità sono affollati di venditori di merce scadente e mendicanti fin troppo giovani.

Roma non mi manca più, come non mi manca la giovinezza. Ne porto però in certi comportamenti l’atteggiamento distaccato fino al cinismo e la tendenza a guardare l’azzurro del cielo con i profili dei pini e dei terrazzi, indifferente a tutte le merde che rischio di pestare.

2 commenti to “Roma mi fé”

  1. Bellissimo quadro di cio’ che era e cio’ che e’……………..lavoravo a Genova a fine anni 70, il quadro dipinto quando tornavo a casa e’ perfetto……

  2. le città di origine, per quanti difetti possano avere rimangono uniche ai nostri occhi

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