
di Pierluca Proietti
“Possiamo chiederle il suo nome e la zona di provenienza?”
“Mi chiamo Primo Riondo e vengo da Barolo”
“Barolo Barolo?”
“Barolo Barolo”
“Allora, partiamo dall’inizio. Quando ha iniziato la sua attività?”
“A 25 anni, era il 1985. Qualche anno dopo la fine della scuola enologica. Ho lavorato per un po’ al fianco di bravi enologi della mia zona per poi prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia”
“Azienda storica? Le confesso che l’ho sentita solo nominare negli anni vista la mole di produttori delle Langhe”
“Lo capisco, e non posso biasimarla. Sono stati anni in cui il boom di richieste ha generato una moltiplicazione di investimenti e di marchi. Un calderone in cui, a fronte di varie eccellenze, la pletora di gregari è diventata massa critica.
Per farla breve, un’unica, gigantesca cantina sociale delle Langhe però divisa in centinaia di cantine e corrispondenti brand aziendali. Comunque la mia famiglia fa vino da quattro generazioni”
“Si esprime in questo modo con cognizione di causa?”
“Beh, non ci si può certo aspettare che da un cru di 5 ettari diviso tra 10 produttori possano venir fuori espressioni di terroir così diverse, a mio avviso. Dipende anche dalla reale sapienza dei produttori.
Non siamo tutti Jayer e qui ne ho visti pochi. Ecco perché, lo ripeto, vicino a quei fari luminosi una massa quasi informe di volenterosi produttori costituiva una massa critica senza distinguersi più di tanto, non fosse altro che per qualche dettaglio nei vini e per le etichette diverse”
“E questo secondo lei è stato il problema?”
“Uno dei problemi, sicuramente tra i più determinanti. Ma, va da sé, le richieste in quegli anni erano altissime e tutti hanno approfittato della situazione. Nel momento in cui dal lunedì mattina iniziavano a girare importatori, intermediari e giornalisti alla ricerca di un nuovo produttore da “spingere” è ovvio che anche il più piccolo conferitore di uve potesse essere accarezzato dall’idea di fare il grande passo, costruire la propria cantinetta e determinare la propria identità enologica”
“Questo è stato anche il suo caso?”
“In parte. Io almeno venivo da un percorso di studi. Le assicuro che molti si sono buttati in questa giungla da completi incoscienti. Costretti dagli eventi a “dotarsi” di enologi, agronomi, tecnici, tecnologie, consulenti su qualsiasi cosa riguardasse fare e vendere il proprio vino. Sia chiaro, non lo critico e forse era necessario farlo. Ma capisce benissimo che tutta questa galassia aumenta i costi, spesso vertiginosamente. Fino ad un certo momento è andata benissimo: la domanda era pronta ai nostri prezzi. Poi qualcosa è cambiato”
“Sa identificare questo cambiamento in poche parole?”
“Troppo vino senza identità, contrazione dei consumi, concorrenza da parte di nuove zone e nuovi stili produttivi. Secondo me una rivoluzione copernicana”
“Ci spieghi meglio”
“Fino alla metà degli anni 2000 un importatore o distributore poteva tranquillamente lavorare, e bene, con 8/9 aziende dal nostro territorio. Numeri costanti o in aumento, anno dopo anno. Poi arrivano in sequenza una serie di fattori: crisi della critica enologica globale, internet e i social che moltiplicano le strade dell’informazione, una enorme reticenza al nuovo da parte dei produttori unita alla saccenza di pensare che il proprio sia sempre il meglio, un cambio epocale nel gesto del bere molto meno legato ad una preparazione quasi liturgica e molto più orientato a pochi fattori, direi semplici, per non dire semplicistici”
“È un’affermazione un po’ pesante”
“È quello che penso”
“Può farcela capire meglio?”
“Per me è una sola: l’arrivo del funky”
“Cioè? Rischia di diventare ermetico”
“Non mi è mai capitato di vedere come negli ultimi 15 anni tante persone così sicure di sé sul vino: nuovi esercenti, bevitori, produttori. Parlando, diciamo anche confrontandomi, mi sono reso conto cosa ha contraddistinto questa nuova generazione.
Sono arrivato alla conclusione che ci sia stato ad un certo punto un corto circuito: tutte queste persone hanno reagito pesantemente ad un mondo enologico troppo chiuso, arroccato ed esclusivo che non aveva la minima intenzione di includerli. Non era possibile altra via rispetto a quella battuta e controllata.
Vuoi fare il vino? Pianta come dico io con questi consulenti, rivolgiti a queste guide e nel frattempo che aspetti qualche risultato continua a trovare soldi per reggere il conto economico. Vuoi aprire un ristorante o un’enoteca? Non puoi farlo se non hai le stellette di corsi di qualificazione che diciamo noi. Vuoi bere bene? Te lo diciamo noi come si fa e ti diciamo i passi da fare seguendo i soliti corsi e corsetti.
Ad un certo punto, soprattutto dalla Francia dove la rivoluzione scorre nel sangue, le zone minori e misconsiderate iniziano a ribellarsi mettendo in discussione tutto, in primis la grammatica produttiva e l’approccio alla bevuta”
“Cioè il funky?”
“No, quello è venuto dopo. È stata l’altra faccia della medaglia. Nei primi periodi era tutto un enorme brulicare di esperienze di scambio, di approcci approfonditi alle viticolture e alle pratiche enologiche. Si parlò di “rinascita delle denominazioni”, lo ricorda?”
“Certo che lo ricordo. Quindi vede in questa prima fase della seconda era un sostrato positivo”
“Sicuramente una energia enorme, una grande volontà di scambio tra tutti. Il “naturale”, non ci nascondiamo dietro ad un dito, è stato il motore portante di un processo più ampio e complesso. In tutte le denominazioni, in tutti i territori, si attuò un processo psicosociale di analisi della propria identità. La reinterpretazione di tradizioni abbandonate per seguire l’enologia degli anni 80 ha fatto esplodere pentole sul fuoco da anni”
“Un esempio”
“Si ricorda i vini del Rodano negli anni 80? Ecco, li confronti con i produttori e gli stili che vanno per la maggiore oggi e troverà tutte le sue risposte”
“Facciamo un passo indietro però, che può essere un passo in avanti. Quando è arrivato il funky, che mi sembra lei giudichi in un accezione non positiva?”
“Bisogna prima farne due di passi indietro. La rivoluzione naturale nei territori, partendo come dicevo prima dai “minori”, conobbe delle infiltrazioni come in tutte le rivoluzioni del 900 occidentale.
I paisant sono stati dei comprimari di gente molto scaltra, venuta dalla città e spesso di estrazione sociale non proprio contadina. Guarda caso, dappertutto proprio quei personaggi oggi sono i fari del rinnovamento, hanno creato un’ombra intorno a sé molto simile a quella dei grandi soloni del periodo precedente, osannati senza possibilità di critica. Come sempre, finché l’offerta supera la domanda va bene per tutti, quando il giochino si rompe va bene solo per loro. Il contadino soccombe.
E questa per me non si può chiamare rivoluzione contadina. È un ossimoro.
Passo al discorso del funky: uno dei caratteri più barocchi e saccenti del mantra comunicativo di questi personaggi è stato quello di incentrare intorno a sé una sorta di investitura divina. Ora, non possiamo essere tutti divinità.
C’è Dio e c’è chi lo prega. Costoro (bel termine) lo sanno bene, e hanno incentrato il proprio messaggio intorno ad una comunicazione fatta di semplicistici approcci, privi di reali spiegazioni perché la fede non si deve spiegare. E così, a distanza di anni, esistono ancora fazioni di operatori del settore che forti dell’amicizia con questi sacerdoti ne sono difensori con il coltello tra i denti.
Il funky sta proprio nell’impoverimento totale del linguaggio intorno al vino, diverso da quello supertecnico dell’era precedente, già altrettanto impoverito.
“Un esempio pratico vissuto direttamente?”
“Qualche settimana fa ero da un ristoratore di questa specie. Per intenderci, ma è sempre un mio punto di vista, di quelli che vanno ormai solo in certe fiere della prima era naturale per far vedere a tutti che parlano alla pari con il guru di turno. Ho espresso un mio giudizio su uno dei produttori rispetto a cui rimette le lancette del suo ego.
Mi ha quasi insultato dandomi in sequenza del pinguino sommelier degli anni 80, dell’incapace di capire che qui si parla della trasformazione pura della energia della terra attraverso lo spirito del vero vigneron etc etc. In sostanza, non ti puoi permettere di giudicare se non sei investito della luce divina. Ok. Dieci minuti dopo entra una nuova leva della zona, naturale ovviamente. Aspetta un’ora per avere un responso sui campioni portati.
Risultato: giudica i vini del ragazzo, usando un eufemismo.
“Ricapitolando: il funky, o glou glou, ha derubricato il linguaggio enologico ad un approccio smart con una, secondo lei, colpevole riduzione del vocabolario”
“Colpevole? Non so se colpevole.
Il vino ci accompagna da millenni, ha cambiato faccia mille volte. La mia è solo cronaca personale di quello che vedo. Questa rivoluzione doveva liberare il linguaggio, gli intenti erano questi. Il risultato è stato l’opposto: termini e locuzioni precotte ripetute fino alla nausea per vendere oppure per avere un posto in prima fila tra amici enofili. Trova tranchant questa mia conclusione? Per me è molto contadina invece”
“Probabile, non la giudico però. Secondo lei c’è stata un’ennesima mancata rivoluzione contadina anche nell’ultimo decennio?”
“Si, una sola. Il contado ha sempre rappresentato comunità nella storia europea, più che per il bene, per la convenienza comune. Mi sarei aspettato, in barba ai personalismi, delle serie azioni partite dal basso per la ricostituzione di cooperative vinicole territoriali.
Invece abbiamo tutte le zone, dall’Etna a Jesi, da Ragusa a Mezzolombardo, piene di guru privati e colmi di ex cantine sociali decadenti”
“Lo so che rischio l’insulto, ma come vede il futuro?”
“Farla semplice è difficile. Ma cerco di essere sincero con me stesso.
A me sembra che ormai si beve vino come una bevanda alcolica qualsiasi, diciamo che è la pista di decollo che finisce con cocktail vari. Ma chi beve vuole sempre cose nuove, facili da descrivere. Questo ha una sua conseguenza sui mercati. Nonostante le contrazioni gigantesche di cui si parla, in tutto il mondo nessun operatore può permettersi una riduzione del portfolio, pena la morte.
Anzi, devono aumentare la gamma, inserendo di buon grado chi sa fa parlare meglio di sé, piccoli fenomeni per intenderci. A prezzi che devono rispettare una fascia tra i 5 e i 7 euro franco cantina per gli importatori dei paesi più performanti, vedi USA. Per le denominazioni come la mia, in cui la forza del brand territoriale è stata sempre maggiore rispetto a tutto il resto, si continua a comprare per inerzia, ma già arrivano richieste con scontistiche pazzesche, sinceramente non sostenibili”
“E quindi?”
“E quindi quando c’è un incidente in autostrada davanti a te e tu sei stato così fortunato da non capitarci, è meglio che ti fermi al primo autogrill e ti metti a pensare. Se l’autogrill è già passato ti metti in coda e pensi lo stesso”
