Barbacarlo, santuario e trincea

Barbacarlo

di Armando Castagno

Latitudine Nord 45.064632; longitudine Est 9.2776. Occorre vederla, questa vigna, per capire; prima magari dall’alto, come in avanscoperta, e digitando i numeri su apposito sito di traduzione delle coordinate GPS sarete d’emblée lungo la sua scarpata principale; le forme che proiettano ombre sulla destra della sacra vigna sono, bestemmiare è inutile ma spontaneo, due enormi ripetitori telefonici. Oppure, armati di fiato, pazienza e gambe forti, si potrebbe camminarne le balze ripidissime, sempre che le si trovi, perché dalle strade lungo le quali scorre la vita ordinata e tranquilla del fondovalle, la presenza di queste infernali terrazze imprigionate dalla boscaglia non si percepisce.

Ci si immedesimerà in chi questo fazzoletto di terra porta avanti ogni giorno, perché è il suo turno: Giuseppe Maga, 49 anni, è il figlio del leggendario Lino, classe 1931. La sua piccola 4×4, dal significativo nome di “Suzuki Samurai”, ci sgancia alla base della salita, senza che io abbia contezza di quale arrampicata manchi ancora da fare. Si avvicina il tramonto; ci facciamo strada nel fitto del bosco, lui con passo da capriolo, io arrancando; sbuffo come un capodoglio; il pensiero mi va per un attimo alla compagnia dell’Anello.

Arriviamo infine a uno spazio aperto, vitato, scosceso e a gradoni; la terra ha riflessi dal rosso vermiglio della parete orientale all’ocra giallastro di quella a fianco. Mi abbandono a una immobilità salvifica, preda di zanzare che suppongo registrate al PRA. Tutto sembra precario attorno, forse perché lo è: anche la palificazione di sostegno, la direzione stessa delle piante, tratteggiano un’ipotesi di disordine. Il panorama intorno è invece un’unica, vasta, bellissima macchia boschiva, un tempo costellata di vigne, ma ora arresa al bosco, senza aver lottato.

In sostanza, il Barbacarlo è una radura. Vi appare disperata la difficoltà di coltivazione e manutenzione a livello logistico, fitosanitario, idrico; una parte del vigneto appare logorata; la quantità di lavoro necessaria a tenerla in piedi, semplicemente, antieconomica. E il discorso vale in parte anche per le due altre parcelle familiari, il Ronchetto, lasciato andare una decina di anni fa e per il quale è tuttavia in programma un reimpianto, e il Montebuono, cru di accertato splendore per un altro vino storico dell’Oltrepò, il “Sangue di Giuda”, che è in ottima salute, ma dopo anni di lavori che indovino sfiancanti. Tutti e tre i vigneti sono in comune di Broni, tra i boschi a Est dell’abitato; congiungendoli su una mappa si ottiene un triangolo isoscele con la punta, il Montebuono, protesa verso Sud.

Il vigneto Barbacarlo si chiama così almeno dal 1886, quando figura su una carta del catasto di Broni; il battesimo di questo versante della collina Porrèi, in Val Maga – nome storico e autentico di quella che oggi i cartelli indicano come Valle Recoaro – si deve ai nipoti del patriarca Carlo Maga (barba Carlo = zio Carlo). Il vigneto, quattro ettari circa, guarda Sud Ovest, ed ha pendenza tra il 60% e il 90% se non di più; dalla sua sommità, a 310 metri sul livello del mare, lo sguardo è chiuso a Nord dalla collina stessa, ma spazia a meridione per decine di chilometri, molto oltre la prima cortina di colline. Quello che si vede gonfia veramente il cuore: in cima al colle di fronte, in direzione Sud, una corona di boscaglia si è erta a nascondere antichi ruderi, che sopravvivono nella selva ormai inestricabile e nei ricordi dei vecchi bronesi. Più in là, nella seconda “quinta”, quel che rimane del Castello di Montuè, in comune di Canneto; a Sud Ovest staglia solitaria la Cappella del Monte di San Contardo, patrono di Broni, sulla cima di un colle dal quale, in una giornata tersa, si vede Milano, che dista in linea d’aria almeno 50 chilometri.

Il Barbacarlo è qui, magra scalinata a 45 gradi di pendenza in mezzo alla foresta di acacie, coltivato con determinazione, e verrebbe da dire con una sorta di antico rancore, da generazioni; a ciascuna ha regalato il suo vino originale e scaleno, la cui difformità da una vendemmia all’altra, salendone l’erta aggrappati ai pali di sostegno e al fiato residuo, si coglie come un valore. Non avrebbe senso, vien da pensare, proseguire la storia di una vigna così ostile, caìna e madre, croce e delizia, per fare un vino sempre uguale o aggiustarlo, spianarne le asperità, imbellettarlo. È una vigna che al contrario pare chiedere, pretendere anzi, che le differenze siano esaltate e rispettate; e che proprio per la sua assoluta unicità poteva trovarsi solo molto male entro il dolce cappio di un disciplinare di produzione, da cui infatti, nel 2003, è alla fine rimasta strangolata.

La vicenda romanzesca del vino è abbastanza nota, ma può essere utile ripercorrerla in breve. Il Barbacarlo, inteso come vigneto, faceva storicamente parte di una lista di parcelle familiari, tutte in “monopolio”, ciascuna capace di dare il suo vino con le sue particolarità individuali. Di ciascuno si sapeva da dove venisse, com’era, chi lo produceva e come, ma sono nomi ormai obliterati: esistevano a Broni, oltre al Barbacarlo e al Montebuono, vini rossi da uve di Croatina, Barbera, Ughetta, Freisa, Moradella e Uva Rara, in coltivazione caoticamente mescolata, chiamati Badaluca, La Móla, Saragnóla, Oleàno, Gallarate.

Nel 1961 venne fondato il Consorzio Vini Tipici Pregiati dell’Oltrepò Pavese, e Lino Maga, trentenne, entrò a farne parte; la funzione del Consorzio avrebbe dovuto essere anche consultiva nei confronti del Ministero agricolo, il quale varò nel 1963 la legge (la celebre 930) che istituiva le Denominazioni d’Origine Semplice, Controllata, Controllata e Garantita. A quel punto, non essendo stato “Barbacarlo” tutelato come nome di luogo, Maga si trovò improvvisamente in compagnia di altri sette “Barbacarlo” nel Consorzio. “O son falso io o lo sono tutti gli altri” – pensò rassegnando le dimissioni. Ma il peggio doveva ancora venire: “Barbacarlo”, con le leggi vigenti, poteva essere prodotto in qualcosa come quarantacinque comuni diversi. L’Ispettorato Compartimentale di Milano propose il riconoscimento dell’aggettivazione “Classico” sui sette comuni attorno a Broni tentando di convincere dapprima l’avvocato di Maga; quest’ultimo suggerì al suo assistito di accettare, e Lino laconicamente gli chiese la parcella, lo liquidò, lo sostituì. “Era lunga un metro e mezzo” – mi dice sorridendo. “Cosa?” “La parcella”.

Vigna di Barbarcarlo

Il 6 agosto del 1970 uscì il testo istitutivo della DOC Oltrepò Pavese, al cui varo Lino Maga aveva dato un decisivo impulso; ma nel testo, rimase la possibilità di produrre il Barbacarlo in 45 comuni. A quel punto non restò che valutare un problematico ricorso presso il TAR del Lazio, impugnando il testo stesso della Denominazione. Una causa siffatta avrebbe significato per un Don Chisciotte solitario come Lino Maga, aspramente biasimato persino in casa da suo padre, avere contro in giudizio uno schieramento comprendente diverse associazioni sindacali, la Camera di Commercio di Pavia, il Ministero dell’Agricoltura, il Comitato Nazionale Tutela Vini e l’Avvocatura Generale dello Stato. Maga fece causa.

Dalla parte del “vero” Barbacarlo erano davvero in pochi: Lino, il suo secondo avvocato Luigi Migliori, amici fraterni come Luigi Veronelli e Gianni Brera, questi ultimi con la penna come sola, ma appuntita, arma di difesa. Ottenuta una prima, clamorosa sentenza favorevole dal TAR del Lazio, Maga avrebbe dovuto in seguito constatare fino a che punto era arrivato il suo isolamento. Alla Rassegna di Casteggio del 1986, ad esempio, facevano bella mostra di sé bottiglie fuorilegge di Barbacarlo di imbottigliatori addirittura all’interno dello stand del Consorzio di Tutela dell’Oltrepò. Ma la storia ha un lieto fine: Maga vinse alla fine anche al Consiglio di Stato, presso cui lo schieramento sconfitto in primo grado aveva inoltrato, compatto, il suo ricorso. “Questa sentenza del Consiglio di Stato non usciva mai” ricorda. “Allora dissi al mio avvocato: ma non si possono sollecitare i giudici? E quello: ma è matto? Vuol sollecitare il Consiglio di Stato? Ma no che non si può. E io: lo faccia lo stesso. Lo fece. E la sentenza finalmente uscì: era il marzo del 1987. E mi diede ragione, condannando la controparte a pagare tutte le spese: quei poveretti si trovarono con quarantacinque milioni di parcella del mio avvocato da pagare. Gliela pagarono. Tuttavia… ecco… è stata dura”. Vent’anni di causa per vedersi riconoscere il diritto esclusivo di utilizzo del nome della vigna Barbacarlo; ma da allora, questo vino è tornato a identificare il solo frutto del vigneto di Broni dal quale sempre era nato.

La struttura e composizione del cru sono riflesso dell’antica idea contadina del promiscuo: c’è una buona maggioranza di Croatina, oggi attorno al 50%, collocata dalla base fino a metà vigneto, salendo; sopra, si trovano le altre due uve presenti, l’Uva Rara (20%) e l’Ughetta, nome locale della Vespolina (30%), nonché, s’è scritto, qualche pianta di Barbera che sinceramente non abbiamo saputo distinguere.

Il terreno è un esempio di quell’insieme di sabbie e ciottoli in passato noto come puddinga, e oggi genericamente ricompreso entro il calderone dei conglomerati. Più precisamente, l’insieme presenta una tessitura in cui ciottoli ghiaiosi, grossi e stondati, sono cementati in una sabbia arenacea di colore grigio-giallastro, leggera e calda, che come in molte altre parti dell’Italia del vino è chiamata, a sproposito, “tufo”; come accennato, in alcune parti la superficie presenta ampie venature rossastre dovute all’affioramento di ossidi di ferro e di alluminio. Al di sotto del primo strato c’è una piastra di arenaria di spessore ragguardevole e durezza eccezionale, tanto da rendere impossibile la messa a dimora di una vigna nei punti in cui affiora, a meno di usare l’esplosivo. Alcune sezioni di questa matrice sono perfettamente visibili nella zona centrale del Barbacarlo e lungo la terrazza che porta al limitrofo vigneto denominato “Ronchetto”.

Si lavora in vigna “senza diserbanti o prodotti chimici di ogni genere”; in cantina, dopo la pigiatura, si fermenta il mosto in vecchi tini di rovere, e dopo una macerazione di 7/8 giorni a cappello sommerso (con la tipica “steccatura”) si svina. L’imbottigliamento, effettuato tra aprile e maggio dell’anno dopo la vendemmia, trova spesso il vino Barbacarlo ancora con una quantità non trascurabile di residuo zuccherino, dal che la sua immancabile effervescenza, che può arrivare ad essere di una tenacia incredibile (vedi la scheda del 1973, ad esempio).

Un protocollo rispettoso e in tutto “non interventista”, come si vede; l’esposizione del luogo, dal canto suo, porta alle piante tutto il sole possibile, la ventosità vi è rilevante, l’altitudine perfetta, le piante ormai mature quando non proprio vecchie (se ne trovano anche di cent’anni); ma nessuna indagine sulla filiera che porta dal germogliamento al sorso può rendere pieno conto, o pretendere di spiegare, l’assoluta individualità del vino che si trae da questa specifica collina.

E a dire il vero, le nostre varie visite alla casa di Lino Maga, nel centro di Broni, non ci hanno svelato alcunché di illuminante, pur avendo noi crivellato padre e figlio di domande per poi appendere lo sguardo nel marasma di oggetti in attesa di una risposta. In compenso, sul tavolo del soggiorno dei Maga abbiamo assaggiato, in tre riprese, le annate del Barbacarlo di cui leggerete ed altre per descrivere bene le quali sarebbe servito un numero intero della rivista, gustato una quantità immorale di salame di Varzi, accompagnato dal fedele “miccone” (il pane) locale, ascoltato e registrato racconti inestimabili quanto dettagliati dalla voce di Lino; una voce profonda, lenta, cadenzata da rari soprassalti di dialetto, dagli sbuffi delle sigarette e da qualche sogghigno improvviso, seminascosto a tratti dalle spirali del fumo azzurrino, qualcuno forse divertito, qualcuno forse disilluso.

Mentre parla, lo sguardo mi vola per la stanza, e atterra sui vari fogli di carta ormai ingialliti che pezzetti di un eroico scotch d’epoca tengono ancora attaccati al mobilio; ne trascrivo qualcuno. “Barbacarlo è un vino ecclesiastico che conserva i segreti della natura”. “Ha poca importanza il vino che porta il nome del vitigno senza dire il luogo che lo ha partorito”. “Terra… vite… vino: la civiltà contadina in un bicchiere”. “La qualità del vino non nasce da una imposizione di legge ma da una vocazione del produttore”. “Non fare del bene a nessuno se non sei sicuro di saperne sopportare l’ingratitudine”. Mi salta alla mente un pensiero, non mio ma di Alexander Pope, e lo cito a Maga: “Fools rush in where angels fear to tread”, ovvero “I pazzi corrono dove gli angeli hanno paura di camminare”. Lui ascolta, sogghigna, tira un gran respiro dalla sigaretta, poi sbuffa via una nuvola di fumo. “Grazie” – mi fa. Lui a me. Da non credere.

Scritte di Maga

La degustazione

 

2012
Barbacarlo secco e brioso, tra i più potenti e cupi della verticale. Colore di un violaceo-nerastro; spuma vivace. Note selvatiche molto nette al naso, allo stato evolutivo attuale quasi da Grasparossa per rusticità e asprezza fenolica; prugna e mora, carbone dolce, liquirizia, fondo di caffè. La vigorosa effervescenza incrudisce il sorso e lo limita sia in larghezza sia in estensione enfatizzando la morsa di un tannino spesso e masticabile; saporoso finale fruttato. Da aspettare almeno un paio d’anni.

2011
Secco e spumeggiante. Ugualmente scuro ma composto e ordinato al naso, complesso e originale: alle note di inchiostro, mora di rovo, ciliegia nera e liquirizia dolce se ne affiancano altre di notevole suggestione e non tutte classificabili (iris, chiodo di garofano, pepe, incenso, resina, metano). La bocca è ruvida e tesa, sapidissima in fondo dopo svolgimento in cui il tannino ha un ruolo più sfumato che nel 2012. In beva già ora, con eccellenti prospettive di evoluzione sui 20 anni.

2010
Pressoché secco; fermo. Naso stupendo e ricco, sulle spezie dolci come il cacao e la cannella; l’aerazione ne svela la cinetica inquieta, cosicché il quadro cambia varie volte in mezz’ora, toccando finezze floreali (viola), fruttate (nettissima la ciliegia matura) e minerali (iodio), il tutto con la costante presenza di un soffio alcolico da distillato che preme sullo sfondo. L’assaggio lo trova irruento in entrata ma poi via via più quieto e sicuro, polposo ma non pesante, generoso negli estratti, nella spinta alcolica; su di essa sfuma, tra suggestioni balsamiche e fruttate.

2009
Secco e fermo. Profilo olfattivo addolcito da sentori di zucchero vanigliato e uva passa; cresce però nel bicchiere (emergono viola, humus, orzo tostato e liquirizia, accanto a note metalliche). Bocca dirompente, vasta e letteralmente emolliente; il pur irsuto tannino si fonde in un sapore dolce-non dolce di fiabesca bellezza, né la sostanziale mancanza di vitalità acida riesce a minare la magnificenza di un vino che dovrebbe mantenersi stabile nei decenni, tre o quattro a stare stretti. Con le uve del Barbacarlo, Lino Maga non ha mai fallito un’annata calda nel dopoguerra – salvo la 1978, grandinata il 6 agosto – e questo 2009 da stagione rovente allunga una serie di riuscite impressionanti (1961, 1971, 1990, 2003).

2007
Appena abboccato; brioso. Profuma come una canestra di frutta a un metro dal bicchiere, liberando poi accenti boschivi di felce, muschio e mirto, floreali di violetta, speziati di pepe bianco; l’insieme è veicolato da possente voce alcolica. L’ingresso gustativo è altrettanto affascinante, morbido dapprima per via del lascito zuccherino e della grana assai fine del tannino, ma vivacizzato subito dall’effervescenza, che solleva il tutto e lo proietta a finale vibrante, lungo e salato.

2006
Edizione alterna e Barbacarlo non troppo affidabile: qualche assaggio può lasciare perplessi per riduzione violenta o volatile molto percettibile. Imbroccando la bottiglia giusta, tuttavia, si trova un vino davvero strepitoso, come quello dell’ultima volta: nettamente abboccato, aveva un bouquet straordinario e solare di ciliegia e uva, tanta terra, liquirizia e corteccia, cannella e tartufo nero, e un sorso ampio, appagante, con l’alcol sotto controllo e un bellissimo graffio acido in fondo.

2004
Fermo e secco, o come scrive Maga sul collarino “amaro-asciutto”. Presenta, tra tutti i Barbacarlo del suo decennio, lo spettro aromatico più evoluto, su nuance che oltre all’arancia, la noce, il tabacco, la cenere e la liquirizia evocano il dattero e il solvente. Situazione al contrario promettente all’assaggio, dove il vino è diritto e ancora in parte inespresso; procede in equilibrio finché nel finale il calore prende il sopravvento; l’eco è quella di un nocino. Ha svolto quasi 15 gradi di alcol, ma ha pH tra i più bassi degli ultimi tempi a 3,21.

2003
Annata-chiave per il Barbacarlo, per la prima volta costretto fuori dalla DOC “Oltrepò Pavese Rosso” essendo stato respinto dalla commissione a causa del residuo zuccherino di 12,6 grammi. Si tratta, pur nella sua originalità, di un capolavoro: dalla coltre alcolica filtrano profumi di rosolio, brace, scorza d’arancia candita, rame, frutta esotica; al sorso vale un Porto Vintage dei migliori, con il suo ingresso soave, lo straordinario grip tannico, la delirante qualità dei ritorni e una veemenza acida del tutto insospettabile; una persistenza infinita e una indimenticabile sensazione di velluto lo accompagnano nell’Olimpo delle migliori annate della storia.

2001
Secco e spumeggiante. La migliore bottiglia che ricordiamo di 2001: naso di eccezionale ricercatezza in cui fiori ed henné – nonché un leggero tocco salmastro – affiancano ricordi di agrumi e frutta di bosco selvatica e aspra, come il lampone. Al sorso la grande protagonista è la carbonica, che spinge come in poche altre versioni, ne alleggerisce il peso e ne elettrizza il profilo. Alla fin fine, questo splendido Barbacarlo è soprattutto uno spumante, e di questo andrà tenuto conto al momento della scelta di un abbinamento.

2000
Fermo e secco. Annata poco nota del Barbacarlo, a causa di una vasta partita di tappi difettosi e del conseguente richiamo di parte della produzione. Questa bottiglia era esente da difetti, ma il vino non figura tra i migliori: note di carota e ribes bianco, erbe da Vermouth e rosa macerata disegnano un discreto bouquet, ma all’assaggio il vino è svuotato e scabro, inoffensivo nel tannino e sbrigativo in persistenza, imperniata sull’energica sapidità e poco d’altro.

1999
Colore straniante: l’orlo sarà pure granato ma il cuore è di un rubino brillante. Bel naso caldo e avvolgente di ciliegia, garofano, lieve sottobosco, lichene e muschio; vivificata da carbonica puntiforme e gentile, la bocca è pura, severa persino, molto minerale in fondo dove si affacciano echi di gelatina di frutta rossa e, ancora, fiori. Versione al limite del lirico, da classificare come secca e appena briosa. La si direbbe ancora in fase di crescita evolutiva.

Vista sulla strada

1998
Amabile e spumeggiante: versione anch’essa sui generis. Naso autunnale di prugna secca, caffè zuccherato, corteccia e humus, poi torrone, sale, cacao, un tocco floreale e un’autentica caterva di erbe aromatiche. Bocca morbida senza esitazioni ma per nulla stucchevole; entra appoggiandosi sugli zuccheri ma sfodera poi ampiezza da grande vino e vive sull’esuberanza delle sue microscopiche bollicine; chiude con classe, su riverberi di frutta secca ed erbe; lo sfumare degli aromi è un crescendo di purezza.

1997
Secco e pressoché fermo. Naso infervorato, tra note di kirsch, fioritura estiva, menta, china, ruta e tabacco, e bocca segnata da abbacinante mineralità, nel dipanarsi di un tannino davvero finissimo. Se una critica gli si può muovere è nel ruolo dell’acidità, poco integrata al corpo del vino, il quale ne viene illuminato come da lampi improvvisi. Accettabile lunghezza e finale ordinato; i ritorni sono di pelle conciata, salsedine e camomilla.

1995
Primo vino della storia enoica che si offra volontario per una degustazione: la bottiglia si stappa da sola mentre si discorre nel soggiorno; il tappo fa il botto, sfonda la capsula, colpisce il soffitto e ci ricade in mano (chi scrive ha un mancamento, Maga non fa una piega e con la faccia da poker bisbiglia “e beh, con ‘sto caldo”). Il vino è buono, carnoso, prodigo di aromi di confettura di prugna, fiori, tamarindo, terriccio e qualche nota speziata più difficile da descrivere. La bocca è sapida, vibrante di effervescenza, incisiva nel tannino e nella freschezza acida; linda persistenza al sapore di granatina.

1990
Abboccato e solo lievemente brioso. È Barbacarlo leggendario, e questo assaggio ne chiarisce i contorni della fama: è una specie di “summa”, oltretutto senza pace nella trasformazione degli aromi. Il colore è tra i più concentrati della degustazione e il bouquet è un delirio: sa di marron glacé, eucalipto, arancia candita, orzo e cacao; dopo 20 minuti nel bicchiere appuntiamo viola, chinotto, piombo fuso, giglio, propoli; e cambierà ancora nelle due ore in cui lo abbiamo seguito. All’assaggio è fine e dettagliato; incede quasi con solennità ma il tannino, abbondante e spesso, non ha risorse per opporsi nel finale allo straripare dell’acidità. Chiude in gloria, lunghissimo, espressivo, coerente.

1989
Secco e fermo. Aroma boschivo e crepuscolare; sa di lucido da scarpe, cera, prugna secca, carbone, ginepro, inchiostro. Al sorso è austero, poco tannico, con l’acidità che invece, nonostante un valore analitico nella norma (5,25 g/l), punge quasi, ed è comunque sufficiente a renderlo uno dei Barbacarlo più freschi della rassegna. Epilogo floreale e agrumato, non esteso ma adeguato per compostezza e qualità.

1983
Quasi dolce; brioso. Il più grande dei vecchi: al dissolversi della spuma, e quasi in trasparenza dietro il velo della volatile, si staglia un bouquet di fragola, kumquat, seltz e fiori bianchi, poi calce, vernice, pepe bianco, liquirizia. La bocca è di soavità indescrivibile, puntellata da una carbonica soffice; dipana impetuosa progressione; nel finale mozzafiato rivela di aver custodito per oltre trent’anni un nucleo di frutta rossa che è lì e pulsa ancora, nitido e puro.

1982
Amabile; spumeggiante. Granato chiaro con riflessi arancio; volatile evidente, ma non esiziale; profuma per il resto di caramella all’arancia, asfalto, tabacco fermentato, rabarbaro e fiori. La bocca è esile, elegante; dopo ingresso dolce e confettoso sfila via in scioltezza grazie a dotazione alcolica modesta (svolti solo 11,5 gradi) e soprattutto alla potenza acida; sfuma poi celermente lasciando un senso di ricercata finezza.

1973
Secco e brioso (!). Scende nel bicchiere formando ricca spuma, francamente inattesa vista l’età. Per coglierne il potenziale aromatico, tuttavia, ci vuole il tempo necessario perché si liberi da tenacissima riduzione. Poi sa come premiare: note “di testa” di cuoio e cera d’api, iodio, fiori appassiti, frutta rossa macerata, genziana, legno di sandalo. La tessitura gustativa è ancora oggi d’inappuntabile finezza; restano di questo vino nella memoria la succosità, la furiosa sapidità, l’entusiasmo che lo scuote ancora a 42 anni dalla vendemmia.

1969
Appena abboccato; pressoché fermo; è tra i migliori 1969 italiani (non che ci voglia molto, peraltro). Ha un bel naso quasi esente da derive ossidative – lo segna appena una sfumatura sanguigna – che cita anzi il lampone e il bergamotto, tra variazioni floreali ed erbacee e virgole speziate. L’impatto gustativo è in verità molto tipico per il millesimo, cioè a dire squadrato e poco articolato, ma se non altro il sapore è sodo, generoso, pieno di vigore; peccato che l’acidità “tagli” un po’ il finale proprio quando si affacciano echi di sottobosco e fiori.

 

2 Responses to “Barbacarlo, santuario e trincea”

  1. Pensa che l’89, delle quali ho bevute non poche, era sempre con la carbonica. Talvolta intermittente, come fosse un respiro…

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