
Dobbiamo essere audaci e bere risoluti;senza badare se Sirio si leva o tramonta.Teognide di Megara (VI secolo a. C.)
Concentrarsi al buio rischiarato dalla mezza luna tranciata di netto da un machete intergalattico a quanto pare. Silenzio notturno senza più quel molesto o zziccúsu ronzio epidermico, fastidio nevrastenico d’insetti diurni al cervello: zzuzzuníu.
Intromettersi nel sentimento linfatico di se stessi.
Percepirsi manufatti di nebbia. Impastati di foschia, umidità cioè muffúra. La pelle è muschio, diventata un tutt’uno col suolo di roccia lavica. Tiepidi entrambi ancora – pelle e roccia – il cuore anche è tiepido o ddéfiu, come dicono qui sull’isola. Il tiepido, u ddéfiu, del sole africano meridiano d’inizio settembre, è imbevuto dal mattino al pomeriggio, alla tardiáta, nei pori delle rocce organizzate in amorevoli muretti scuri a protezione dell’alberello pantesco. Muretti sacrali a difesa dei mille soprusi del Maestrale e le insidie della Tramontana ( véntu fóra); un tepore terrestre quindi rilasciato poi dolcemente durante la notte, quasi un respiro pietroso che rassicuri la campagna desolata.
Il tiepido che invece si gode nella stagione fredda in un qualche angolino illuminato dal sole si dice çimíçia mentre kharára è il calore piacevole generato dal fuoco. Miracolo di premure materne è quella lingua che prevede più parole per intendere qualcosa che riscaldi o dia illusione di conforto anche solo pronunciandole: parole-amuleto che salvino dall’umidità che inzuppa le ossa, riparino dalla muffúra che avvilisce l’anima, soccorrano dal gelo-abisso che risucchia l’isola-mondo nel buio dell’inverno cosmico.
Predisporsi quindi a recepire, a intuire nel sangue il movimento rotatorio del pianeta terra. Accogliere il bollore vulcanico sulla spina dorsale, sotto al culo… ehm, non sono scorregge. La cornice sonora è imperlata a sprazzi dal frinire del grillo nottambulo, il virzizzú. In lontananza qualche latrato di cane alla catena è richiamo lunare di rimando al guaire indemoniato dei gatti in fregola d’amore.
Gli occhi sono ormai smarriti nell’intrico di stelle mute, ataviche. Stelle insignificanti se non si è come minimo astrologi, maghi, poeti, astrofisici… bendisposti ad interpretarle. Medesimo equivalente d’insignificanza qua, alla superficie di questa nudità pancia al cielo, sono le costellazioni spinose dei fichi d’India che fruttificano anche d’inverno un fico con meno ossicini, più polposo o bbastardúni, mentre il primo frutto, quello estivo è detto senza sottintesi ttuppacúlu (provare per credere).
Sono nidificazioni che incoraggia la Macchia e s’intricano ai rovi della mora o maréddra, e trapuntano le galassie profumatissime del rosmarino selvatico ( ‘a rrosamarína), s’aggrovigliano alle nidiate dei capperi che vanno maritandosi in lunghezza all’universo strisciante della vitis vinifera. Percepire che c’è una corrispondenza carnale, vegetale, minerale, spermatica tra quest’orizzonte e quella verticalità, imperscrutabili, ma quale? Perderne il nesso – è una vertigine, un horror vacui, un vákhiçiu come suggerirebbe ancora l’arabeggiante parlata pantesca – proprio nell’istante preciso in cui senti che ne stai afferrando il senso mannaggia, così come con quei sogni dolci e amari al miele di corbezzolo, ( mbriácula sta per corbezzolo), che appena si schiude lo sguardo al risveglio sfilacciano improvvisi nell’aria.
Sogni maledetti che scivolano via per sempre predestinati allo stesso immenso vuoto – o immane nulla, o infinitesimale boh – da cui sono originati.
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