Non sono ammesse scorciatoie

di Raffaella Guidi Federzoni

Nelle storie che mi piace leggere ci deve essere almeno un pasto, anche in quelle che ho imparato a scrivere. Questi sono tre estratti dal mio libro* in cui ne viene descritto uno. Il vino è solo un piccolo satellite, anche il cibo fa da cornice e non da interprete principale. Però nel racconto, solo parzialmente autobiografico, ci stanno bene. Così mi è sembrato nello scriverlo, spero che sia di vostro gradimento leggerlo.

“Oltrepassando Via del Corso, cordone ombelicale fra Piazza del Popolo e Piazza Venezia, passai dal lusso al potere. Lasciai alle spalle i negozi con offerte esagerate e pacchiane e mi addentrai fra botteghe artigiane, bar discreti e ristoranti classici, schivando le auto scure dei molti privilegiati che potevano parcheggiare nelle piazze o lungo i muri rossicci dei palazzi. Quelle auto sarebbero rimaste a lungo, avrebbero solo cambiato padrone. Ancora esistono nonostante siano state oggetto di scandalo e più volte additate come simbolo di arroganza e prevaricazione.

Arrivai quando lui era già seduto a un tavolo contro il muro. Quel posto all’ora di pranzo era frequentato da politici e maneggioni, o come li definiva la mamma «brasseurs d’affaires». Mio padre non entrava in nessuna delle due categorie, ci veniva solo perché il pesce era freschissimo e cucinato molto bene. Il mio genitore aveva una visione estetica della vita che poneva in cima alla lista il cibo, poi il vino, poi il whisky, poi sua moglie. Poi tutto il resto. Si alzò per abbracciarmi con un movimento plateale, lo fece per mostrare al suo amico maitre, ai camerieri e agli altri commensali in giacca e cravatta che lui aveva una figlia bella, elegante, impiegata presso un’azienda prestigiosa.

Dopo la consueta sceneggiata «mia figlia lavora lì, è praticamente una manager» da intendersi “fa le fotocopie, porta il caffè al capo, batte a macchina lettere inutili” ci accomodammo davanti a un vino scelto da lui e mangiammo i piatti scelti da lui, parlando di argomenti scelti da lui. Lo guardavo divorare la zuppa di cozze, succhiando i gusci uno per volta, pulendosi le dita con un tovagliolo ampio che il cameriere premuroso gli aveva avvolto intorno al collo. Mangiava con gusto religioso e concentrato, come se fosse quello il senso del mondo e della vita. Voleva evitare lo scontro, l’approfondimento, le cozze erano il filtro, la salvezza. Mio padre aveva delle mani bellissime e maschie, con dita lunghe e forti dalle punte squadrate mentre la mamma le aveva fini con polpastrelli minuscoli che terminavano a punta, le mani di una signorina elegante che al massimo dipingeva acquarelli. Io ho ereditato le mani di mio padre ed è forse l’unico aspetto di lui che mi piace possedere con fierezza.”

 “Mi guardò attraverso i bifocali, alzando gli occhi dal menu. Si fece portare il vassoio dei pesci del giorno. Come sempre scelse la spigola, la più grande, un esemplare pescato di fresco e non di allevamento. Io presi il dentice più piccolo, tanto non avrebbe mai diviso la spigola con altri, questione di appetito e di egoismo. Altro vino, una bottiglia diversa. Il vino era bianco, freddo, troppo freddo per me ma non per lui. Mi adattavo alle sue scelte, ora il suo palato, i suoi gusti mi paiono infantili, superficiali.

Quel genere di scelte non solo gastronomiche ma generalmente estetiche noiose e prevedibili. Nessuna fantasia, nessun azzardo. I vini rossi da lui amati erano solo quelli toscani, il Piemonte vinicolo veniva ignorato perché troppo impegnativo. Per i bianchi sceglieva la Puglia, o il Friuli quando voleva esagerare. Quel giorno esagerò, ma le due bottiglie scelte si rivelarono entrambe inadatte, io bevvi poco e tacqui. Tacevo quando ero l’unica ad accorgermi di qualcosa molto sbagliato. Tacevo soprattutto con mio padre. Il cameriere si affaccendava col cavatappi e la glacette. I vicini di tavolo erano indifferenti a quel che si beveva, parlavano di soldi e di qualcuno che andava a letto con la moglie di qualcun altro e di quel politico omosessuale che faceva finta di andare a letto con un’attrice per nascondere la verità che però tutti conoscevano.”

“Ordinammo il dessert, tiramisù per me e cantucci con il vinsanto per lui. “Tozzetti” li chiamava mio padre. Tozzetti, l’unico al mondo a chiamarli così, convinto che dalla costa maremmana fino alla Val d’Arno quello fosse il termine giusto. Sbocconcellai il tiramisù, un dolce che in quegli anni dalle cucine piccolo borghesi e dai tinelli campagnoli cominciava a infiltrarsi in tutti i ristoranti come chiusura simbolo dell’autentica cucina italiana. Lo odiai mangiandolo, ancora ne odio il ricordo. Per anni non ne mangiai più, non mi è mai piaciuto quel sapore cremoso e dolciastro.”

*Non sono ammesse scorciatoie – Edizioni Scatole Parlanti
Pagine 158
€ 16.00 (acquistabile prestissimo sul sito dell’editore e presso le maggiori piattaforme online, anche su ordinazione tramite i maggiori punti di distribuzione libraria).

Lascia un commento