di Raffaella Guidi Federzoni
Pubblico con piacere la lettera ricevuta da Emily Jo Wolfsson, seguita dalla mia traduzione. Ho pensato di lasciare la versione originale integra, per renderne il senso completo.
Dear friends from the Accademia, I have been following your blog for a while and, despite the amount of subjects that you have touched, there is something missing. I think that my experience should bring to your attention another viewpoint, the one of a born and raised middle class American.
I grew up in one of the many town in the Midwest. My parents were able to provide a good education to me and my brother. They paid for College and University. We lived in a suburban house with a lovely garden in a leafy street. Mum and Dad were so typical, I realize now, that I could screem. Typical in the povery of talks, typical in their drinks of every weekend, and their composed drunkness afterwards. During working days there were no bottles on the table and everybody ate whenever it felt needed.
Saturdays and Sundays we had barbecues in Spring and Summer, or roasted turkey for Thanksgiving. Endless boring meals with whatever plonk was available, as long as it was strong, heavy and alcoholic.
Once able to drink and drive I did what all the teens I knew did, got drunk every weekend. Slept with whoever I fancied or fancied me. Vomited behind tall leafy trees before getting back home .
College and University brought no difference. Same nights, just more sophisticated, I was becoming a snobbish intellectual, marking this evolution with the choice of more expensive wines or cocktails. The aim was to get pissed as quick as possible. No drunkness, no fun.
I moved to New York City and started a career. In Manhattan I discovered many Italian restaurants in which the wine was part of the meal, not a separate entity. Something was beginning to change. But is was still the ritual of going out for dinner, in my appartment I had a fridge full of junk food, vodka and a forgotten bottle of sparkling stuff.
This was until I landed in Italy for a long planned break. I wanted to run away from a world in which I felt uneasy. I choose Italy blindly, I had no connection, just a copule of acquaintances. It took me two weeks to settl,e somewhere in Central Italy, in a town like many others, ancient, apparentely sleepy and magically beautiful.
I was invited, it seemed so easy, no fuss, they just said “Why don’t you come for dinner tonight?” So I went. I found myself sitting between Grandma and a teen who was able to speak my language. Three generations all together. Bread and bottles of wine on the table. Everybody drunk, even the couple of granchildren. Everybody talked all at once. The meal took at least a couple of hours. I left exhilarated for the conversation, of which I understood very little, the food and the wine. Exhilarated, not drunk.
That was the turning point, since then I sat many times with Italians, aged from sixteen to over ninety. I sat and ate and drunk and felt merry. I learnt the difference of the complicated hierarchy in the Italian denominations and productions. I learnt to appreciate wines from their specificity and not for their glamour.
I never got pissed anymore. Now I don’t need to numb myself to afford life and the next morning.
Italy saved me from selfdestruction, I have no more to say.
Thank you
Emily Jo Wolfsson
Cari amici dell’Accademia, seguo da un po’ il vostro blog e, nonostante la quantità di argomenti che avete toccato, c’è qualcosa che manca. Credo che la mia esperienza possa portare alla vostra attenzione un altro punto di vista, quello di chi è nato e cresciuto nella classe media americana.
Sono cresciuta in una delle molte cittadine del Midwest. I miei genitori furono in grado di provvedere ad una buona educazione per me e mio fratello. Pagarono per il College e l’Università. Abitavamo in un quartiere residenziale, una casa con un bel giardino in una strada alberata. Mamma e papà erano così tipici, mi rendo conto adesso, da farmi urlare. Tipici nella miseria delle conversazioni, tipici nelle bevute di ogni fine settimana, e nella loro composta ubriachezza successiva. Durante i giorni lavorativi non c’erano bottiglie sulla tavola e ognuno mangiava quando ne sentiva la necessità
Il sabato e la domenica c’era la grigliata in primavera ed estate, e tacchino arrosto per il Giorno di Ringraziamento. Noiosi pasti senza fine con qualsiasi vinaccio a disposizione, basta che fosse forte, pesante ed alcolico. Non appena in grado di bere e guidare, feci quello che tutti gli adolescenti di mia conoscenza facevano, ubriacarmi ogni fine settimana. Dormire con chiunque mi piacesse o a cui piacessi. Vomitare dietro alberi fronzuti prima di rientrare a casa.
Gli anni del College e dell’Università non furono differenti. Le stesse notti, solo più sofisticate. Stavo diventando una snob intellettuale, marcando questa evoluzione con la scelta di vini o cocktail più costosi. L’obiettivo era di ubriacarsi più velocemente possibile. Senza sbronza, nessun divertimento.
Mi trasferii a New York e iniziai una carriera. A Manhattan scoprii molti ristoranti italiani in cui il vino era parte del pasto, non un’entità separata. Qualcosa cominciava a cambiare. Ma era ancora il rituale di cenare fuori, nel mio appartamento il frigorifero era pieno di junk food*, vodka e una bottiglia dimenticata di qualcosa frizzante.
Tutto questo fino a quando non atterrai in Italia per una pausa a lungo pianificata. Volevo scappare da un mondo in cui mi sentivo a disagio. Scelsi l’Italia a caso, non avevo contatti, solo un paio di conoscenze. Mi ci vollero un paio di settimane per ambientarmi, da qualche parte nell’Italia centrale, in una cittadina come molte altre, antica, apparentemente addormentata e magicamente bella.
M’invitarono, molto semplicemente, senza cerimonie, mi chiesero “Perché non vieni a cena questa sera?”. Così andai. Mi ritrovai seduta fra la nonna ed un adolescente in grado di parlare la mia lingua. Tre generazioni tutte insieme. Pane e bottiglie di vino sulla tavola. Tutti bevevano, pure i due nipoti. Tutti parlavano contemporaneamente. Il pasto durò almeno un paio d’ore. Me ne andai esilarata per la conversazione, di cui avevo capito ben poco, per il cibo ed il vino. Esilarata, non ubriaca.
Quello fu il punto di svolta. Da allora mi sono seduta tante volte con italiani, di età dai sedici ad oltre novant’anni. Mi sono seduta, ho mangiato, bevuto e sentita contenta. Ho imparato le differenze nella complicata gerarchia delle denominazioni e produzioni italiane. Ho imparato ad apprezzare i vini per la loro specificità e non per il loro prestigio.
Non mi sono più sbronzata. Ora non ho bisogno di stordirmi per affrontare la vita ed il mattino dopo.
L’Italia mi ha salvata dall’autodistruzione, non ho altro da dire.
Grazie
Emily Jo Wolfsson
* ho preferito mantenere la definizione di “cibo spazzatura” in lingua originale, suona meglio.