For lunch but not for dinner

british gentlemen

di Raffaella Guidi Federzoni

È opinione comune ed errata che la popolazione più arrogante del globo terracqueo sia quella francese. Beninteso, non tutti i francesi, solo una minoranza che non perde occasione per sbattere in faccia allo straniero quanto loro siano superiori in tutto, nel saper vivere, cucinare, produrre vino- beni di lusso-alta moda – letteratura – poesia – cinema.

Ebbene, mi permetto il dissenso alterato, per me la quintessenza dell’arroganza nobile, quella che neanche si preoccupa di giustificarne i motivi, appartiene al ceto alto britannico.

Il senso di superiorità albionico è talmente radicato che non ha bisogno di sforzi nel dimostrarlo, a differenza di quello gallico. Una frase che ben la rappresenta è quella del titolo del mio post.

Cosa vuol dire “A pranzo, ma non a cena”? Sta a significare che la commistione per motivi d’interesse commerciale con persone considerate inferiori è accettata nelle ore diurne, sopportata con degnazione durante una colazione di lavoro, ma rifiutata la sera a cena. Questo è uno dei motivi dell’esistenza dei Club privati, isole felici in cui da secoli si ritrovano persone che condividono censo, educazione, interessi, visioni politiche, sesso (!).

Mettendo da parte l’arroganza e lo snobismo di cui sopra, riprendo il concetto del ritrovarsi a cena per l’unico motivo di avere qualcosa in comune, senza secondi fini. Sono questi i momenti che rendono la vita degna di essere vissuta altrove che in una grotta o convento. A me capita sempre più spesso che il calcio d’inizio, lo sparo a salve, la scintilla d’accensione, sia il vino. Però, ben presto, la bottiglia si trasforma da personaggio principale a secondario, fino a limitarsi ad un ruolo di sfondo.

Chi nel mondo del vino ci lavora e ne trae mezzo di sostentamento alla fine cerca una fuga da un argomento che sottende anche rogne, difficoltà, fatica. Bevuto il primo sorso, reso omaggio al liquido, la conversazione si allarga, cresce, a volte vola. Non si tratta più di un match fra chi deve convincere – a comprare, ad apprezzare, a valutare – e chi è restio a cedere. Partendo dal terreno comune enoico, per creare un’amicizia o confermarla c’è bisogno di altro, un nutrimento di esperienze e di comune sentire ben oltre l’appartenenza alla stessa corrente di pensiero vinoso. Può essere uno scambio di pettegolezzi o di battute leggere e persino stupide, oppure un approfondimento riguardo ai massimi sistemi dell’universo, basta che non si parli ancora di “quello”.

Per questo, lo confesso, quando viaggio per lavoro, mi capita di cenare da sola. Piuttosto che prolungare la sofferenza di un colloquio monotematico, preferisco scansare l’invito con una scusa e nascondermi dietro ad un libro, seduta nel ristorantino accanto all’albergo, sperando che il manager mi compri il vino, ma che no, non me ne parli.

2 commenti to “For lunch but not for dinner”

  1. Ecco, ho appena letto e sono già in depressione. Mesi e mesi spesi inutilmente davanti al tv nella mia piccola cantina-palestra a seguire il corso di John Peter Sloane per poi ritrovarmi più indietro della casella di partenza nel gioco dell’ocone. L’ho seguito fino alla fine ma sta frase “for lunch but not for dinner” non l’ha mai pronunciata. In vista delle prossime vacanze, mi ero quindi fatto tutto un programmino con le giornate divise in due parti: al mattino big-breakfast, dove avrei mangiato anche le gambe dei tavoli e riempito le tasche dei pantaloni di salsicce fumanti e fagioli in umido, alla sera invece erano in programma romantiche cene in pub scozzesi, con tavolino sotto il gioco delle freccette, a base di frattaglie impastate con farina di avena, crusca e fritte nel lardo di maiale e salsa di mango d’umbrella e cartoncini wedding-party. Ora che a cena non mi inviterà più nessuno, che farò?

  2. Io sono senese e, come aggravante, di famiglia piuttosto vecchiotta, per cui in quanto a senso di superiorità innata posso scrivere manuali. E su questa ponderosa base posso confermare quanto scrive Raffaella, con una piccola postilla; in realtà quella gallica non è spocchia, è puro e freudianissimo complesso di inferiorità. Come quello teutone, che però è assai più grave. La cartina tornasole è che entrambe degenerano in arroganza, mentre la vera spocchia lo fa in indifferenza.

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