Henri Jayer e i crimini impuniti

jayer

di Fabio Rizzari

Dieci anni fa più o meno esatti, il 20 settembre 2006,  se ne andava Henri Jayer, vignaiolo borgognone già abbondantemente deificato in vita. Figuriamoci a che livello è arrivata oggi la sua santificazione, con la cascata di confettura agiografica che hanno fatto colare sul suo nome dai quattro angoli del pianeta.

Per capire l’attuale situazione jayeriana vediamola dal punto di vista sentimentale, cioè da quello dei soldi. Una sua bottiglia di Cros Parantoux (di una delle annate rare, a cominciare dal 1978) costava un lustro fa sui 5.000 euro, che è pure una bella sommetta; attualmente ne vale 50.000, dieci volte tanto. Per non parlare del suo Richebourg, capace di superare nelle aste degli iper-ricchi i prezzi stellari della stessa Romanée Conti.

Tale speculazione, bieca e senza scrupoli sotto la vernice dorata dell’esaltazione del “più grande produttore di tutti i tempi”, priva gli appassionati veri del piacere semplice di bere un vino di Jayer.

Perché questo erano, sono e saranno – ancora per poco – i vini prodotti dal bonario Henri: vini semplici e di immediata piacevolezza, nella loro non ostentata, sincera complessità.

Per caso o per felice destino, grazie ai buoni uffici di Riccardo Lombardi, ho potuto non solo conoscerlo, ma pure intervistarlo per il Gambero Rosso, nel lontano marzo del 2000.

Andammo all’incontro insieme a una nota e brava produttrice italiana, che gli portò una sua bottiglia. Jayer la poggiò per terra sbrigativamente, senza nemmeno farla entrare in casa (la bottiglia, non la produttrice).

Questo spiacevole episodio è probabilmente il motivo per il quale, pur avendo tale produttrice scattato decine di foto nell’occasione, Riccardo e io non siamo mai riusciti a vederne mezza; e a ogni incalzamento successivo – “quando ci fai vedere qualche foto?” – abbiamo ottenuto solo risposte vaghe e improbabili (“ho cambiato studio, devo ritrovarle”; “sono in Sudan, quando torno le cerco”; “le ho prestate a Usain Bolt, appena me le restituisce ve le giro”, e simili).

Qui il link per leggere quella vecchia intervista, con tanto di intervista-corollario a Giorgio Pinchiorri, lo maggior collezionista italico di Jayer.

I vini di Jayer si diceva sono oggetto di una speculazione senza scrupoli; come tutte le speculazioni, certo. Però stavolta non si tratta di gonfiare una qualità per spacciarla come unica, secondo lo schema collaudato della congrega di galleristi mondiali che si accorda per definire “un grande artista” un carciofo borioso la cui unica maniera è attaccare alle pareti maniglie di automobile dipinte di verde.

Stavolta si tratta di qualità davvero unica, incontrovertibile, reale. Anzi: irreale, data l’impossibilità di reperirne una singola boccia.

Tra i miei ricordi dell’incontro, in ordine sparso: la sua autentica, non esibita affabilità. Il garage dove teneva flaconi inestimabili in cassette di plastica rossa, tipo quelle dell’acqua minerale, e dal quale trasse un Richebourg 1990 per farcelo assaggiare. La sua frase sulle “finestre di luce” che ogni buon Borgogna deve far lampeggiare.
E il gesto incredibile e normale di uscire con noi, finita l’intervista, per buttare un paio di sacchi della spazzatura.

Per chi volesse approfondire tecnica, scelte filosofiche e strategiche, stile agronomico e vinificatorio, nonché ascoltare personaggi che lo hanno conosciuto (Jacky Rigaux, Aubert de Villaine, Christophe Roumier, il suo bottaio François, la sua importatrice Martine, il suo illustrissimo allievo Didier Dagueneau, lo scostante e irritante Jean Nicolas Meo, il nipote Emmanuel Rouget, Bernard Pivot, eccetera), e soprattutto vederlo e sentirlo in una intervista televisiva, segnalo questo lunghissimo ma ricchissimo film documentario di Laurent Maillefer:

Bisogna masticare il francese – potete passarci anche attraverso il piemontese, più difficilmente attraverso il siciliano – ed essere indulgenti sulla grafica, che vorrebbe essere spiritosa e risulta invece solo goffa e naïf.

Data la sua sterminata estensione, vi aiuto con alcune segnalazioni puntuali:

minuto 21:15
Jayer afferma: “L’enologia è una scienza che bisogna apprendere e conoscere, per poi non servirsene”

24:25
la dimensione ideale di una vigna per poterla gestire e per non delegare

27:20
ricordo della moglie Marcelle, che si alzava alle cinque di mattina per andare in vigna; “se ho fatto grandi vini lo devo a lei”

37:40
apertura di alcune bottiglie supreme, tra le quali un Les Gaudichots Romanée Conti 1929 (!!!)

gaudichots-29

 

39:30
“Sono andato spesso da de Villaine, gli ho dato molti consigli che lui non ha mai seguito”

46:00
“Uso solo lieviti indigeni”

55:45
“Faccio vini che si bevono sempre, ho orrore di sentir dire ‘quello sarà buono fra dieci anni…’ ”

1:23:24
“annusando una botte si capisce se il legno è stato tenuto a maturare un anno, due o tre”

franc%cc%a7ois-il-bottaio

 

1:04:45
“In botte nuova mica si può mettere un vino qualsiasi: un vino mediocre alla fine risulterà comunque boisé, si farà sopraffare dal legno”

1:22:40
Un suo importatore ricorda con tristezza che negli ultimi tempi Jayer era diventato un po’ borioso. Il che non guasta: una nota stonata rende il personaggio più umano e meno santino da adorare.

1:27:16
Il mitologico Didier Dagueneau parla del debito verso Jayer

1:29:35
la parte più toccante e amara del film: de Villaine e altri tre o quattro fortunati torsi di broccolo se ne vanno, lasciando sulla tavola dei vini di Jayer e della Romanée Conti

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