Una lunga vicenda di buon gusto

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Frecciarossa e il Riesling nell’Oltrepò Pavese

di Armando Castagno

In Oltrepò Pavese la storia del Riesling Renano è piuttosto risalente. Per la verità, il disciplinare consente oggi di realizzare la tipologia “Oltrepò Pavese Riesling” anche utilizzando, in tutto o in parte, il cosiddetto “Riesling Italico”, che con quello Renano pare avere in comune soltanto il nome, e che oltre a non avere un decimo del carisma d’insieme e delle risorse aromatiche del primo non può averne nemmeno la tradizione, essendosi diffuso molto più tardi. A onore del vero, in zona di Riesling Italico ce n’è sempre stato: prendendo ad esempio la produzione dei Riesling d’Oltrepò di mezzo secolo fa esatto, che annovera tra le aziende produttrici la Cantina Sociale di S. Maria della Versa, Compagnoni, Madonna Isabella dell’ingegner Giulio Venco, la Tenuta Il Casale del Duca Denari, la Montelio della famiglia Mazza, e ancora Saviotti, Bagnasco, Morini, i Conti Dal Pozzo, la Tenuta di Nazzano, Achilli, Guasti, Valadè e molti altri, si nota in quasi tutti i casi la presenza dell’Italico nell’uvaggio.

Tra le varie bottiglie a base Riesling Renano che negli anni ci sono capitate a tiro, ad ogni modo, una ci ha sempre colpito per originalità e fascino: il Riesling Gli Orti di Frecciarossa, una delle cantine dalla vicenda più interessante della Lombardia intera. Abbiamo pensato di raccontarne brevemente la storia perché ci pare compendi il meglio che la zona – di bellezza sbalorditiva e vocazione acclarata, ma martoriata da problemi di natura politica, sociale e persino giudiziaria – possa oggi offrire.

Frecciarossa è nome stravagante, ne conveniamo, per una tenuta vinicola. Non l’hanno fondata gli indiani d’America, né imprenditori del ramo ferroviario: è invece un toponimo antico, catastale, che deriva dalla corruzione del termine fraccia, cioè “frana”, a dire della cospicua quantità di argilla che caratterizza i terreni di queste colline; e la parola “rossa” denuncia la presenza su questi crinali di vene ferruginose. In azienda, il Riesling è uva tradizionale: era stata una scelta di Giorgio Odero, il figlio del fondatore Mario, il quale commerciava carbone tra la sua città di origine, Genova, e l’Inghilterra, dove risiedeva. Dopo la prima guerra mondiale, tornato in Italia, Mario aveva deciso di acquistare una tenuta nell’Oltrepò, da sempre la “campagna dei genovesi”, che per la ben nota e peculiare conformazione orografica della Liguria centrale ben difficilmente potevano avere possedimenti agricoli di estensione significativa nelle vicinanze di casa.

Avendo trovato la Tenuta Frecciarossa in vendita, Mario Odero alienò tutto quando possedeva e la comprò nel 1919. La mentalità di questo patriarca e pioniere del vino italiano, la cui memoria andrebbe convenientemente celebrata, era stata forgiata da decenni di floridi commmerci internazionali: la sua intenzione precisa, già all’epoca, fu quella di esportare il vino della Tenuta regolarmente imbottigliato, non vendendolo sfuso cioè, né in damigiana. Suo figlio Giorgio Odero, nato nel 1901, avrebbe impresso a Frecciarossa l’accelerazione decisiva: fu il primo in famiglia a laurearsi in Agraria (a Milano), e perfezionò poi il mestiere in Borgogna e in Champagne. Tornato in patria, al timone della cantina, ottenne successi clamorosi. A parte i diplomi di merito per il vino ottenuti in grandi esposizioni internazionali (Londra, New York, Bruxelles), la cantina da lui diretta divenne negli anni Trenta prima fornitrice della Real Casa e poi provveditrice di Freeman Freeman-Thomas, all’epoca Conte di Willingdon (e in seguito Marchese, dal 1936) e Viceré delle Indie.

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Quando poi finì l’epoca del proibizionismo negli Stati Uniti, Frecciarossa ottenne il Marchio Nazionale di Esportazione numero 19 – cioè fu il diciannovesimo prodotto italiano, di qualunque genere, ad entrare negli USA. E già all’epoca, Frecciarossa produceva Riesling. L’etichetta della cantina prodotta con la percentuale maggiore dell’uva tedesca – con un saldo di Riesling Italico e Pinot Nero vinificato in bianco – si chiamava, in francese, “La Vigne Blanche”. Questo vino ebbe un prestigioso sebbene privatissimo riconoscimento, di cui resta testimonianza in una pagina autografa gelosamente conservata: l’apprezzamento di Alfred Hitchcock, che gli dedicò parole appassionate. Nella bella etichetta, sin dalle prime annate, campeggiava la scritta, non inconsueta per l’epoca, “Château-bottled dry white”; costava a fine anni Sessanta più del Gavi La Scolca di Vittorio Soldati, una vera referenza tra i bianchi italiani di allora.

Anche un giovane Luigi Veronelli frequentò l’azienda negli anni ruggenti: scriveva ancora solo di gastronomia, e quando ebbe l’occasione di passare un’intera giornata insieme a Giorgio, si innamorò della tenuta e dei vini: una passione che riemerse negli anni, come ad esempio quando compilò il celebre Catalogo Bolaffi del 1970, dove testualmente si legge del Vigne Blanche: “Bouquet tenue, ma continuo; sapore secco e nervoso; ha stoffa sottile ma consistente, che si sofferma; armonico”. Il resto è storia recente: la figlia di Giorgio, Margherita Odero Radici, è colei che, poco più di venti anni fa, ha nei fatti rilanciato il marchio aziendale, ripensato i vigneti, aggiornato le cantine, ammodernato la rete commerciale. A sua volta, la giovane figlia di Margherita, Valeria Radici, dirige Frecciarossa affiancata da uno staff di prim’ordine sia a livello enologico (Gianluca Scaglione, con la consulenza di Cristiano Garella, che si occupa anche dell’export), sia agronomico (Pierluigi Donna), sia commerciale e amministrativo.

In occasione della nostra visita in azienda, abbiamo percorso i filari della vigna del Riesling subito dopo aver degustato una prima volta tutti i vini della verticale; poco dopo, avremmo visitato Villa Odero, la residenza padronale posta al centro della tenuta, in posizione panoramica. Ebbene, c’è un filo logico, sottile e indistruttibile, che ci è parso unire questi momenti. È il filo di una sobrietà borghese, raffinata, in cui la sicurezza non ha una sfumatura di alterigia. Questa saldezza di pensiero riguarda la scelta di proseguire nella vinificazione di una varietà così aristocratica, la classica moderazione degli arredi della villa, e la ricercata bellezza intrinseca al vino, dal contegno non timido ma nemmeno così morigerato.

Accompagnati da Cristiano, il giovane consulente enologico della cantina, abbiamo ascoltato il rimbombo dei nostri passi lungo i corridoi della dimora storica, nelle camere, sulle scalinate. Abbiamo scattato qualche foto e, tornati a casa, le abbiamo osservate. Tutte restituiscono un’idea di pace, di buon gusto, senza facili infiorettature. Il soffitto di un salone è stuccato a cassettoni, tuttavia lasciati bianchi, appena toccati d’oro. I lampadari di ferro battuto, di capodimonte, di cristallo, spiombano su ambienti stendahliani, silenziosi e tutt’altro che museali, ma al contrario vissuti, fruiti; da ciascuna stanza, abbiamo pensato, qualcuno sembra essere uscito da pochi minuti. La biblioteca occupa una sala intera fino al soffitto ed è satura di libri rari in magnifiche edizioni originali: Ibsen, Vasari, Trevelyan, Flaubert, Oriani, Bertall, Springer, Gavignac, Venturi, Verga; una Divina Commedia di formato monumentale è appoggiata su un enorme leggio ed è aperta a una delle stupende illustrazioni simboliste di Amos Nattini (1892-1985), che lavorò a quest’impresa per 26 anni. Usciamo dalla villa e dalla collezione di libri dopo avere aperto le “Mie Prigioni” di Silvio Pellico in edizione parigina, trovandole autografate da Silvio Pellico.

La vigna, si diceva: Frecciarossa, in comune di Casteggio, è propriamente il “cru”: il Riesling è piantato in una sua parcella, Gli Orti; è una collinetta proprio di fronte alla villa esposta verso Nord Est e Nord Ovest, e ne risale il fianco dai 140 ai 200 metri sul livello del mare. L’intero vigneto, che insiste su un terreno argilloso con vene calcaree – scelto proprio per queste, nella speranza di vedere enfatizzati i valori di acidità delle uve – è interamente a Riesling Renano: un guyot da 4800 ceppi per ettaro.

È un luogo caldo, battuto in estate dal vento proveniente dal Mar Ligure. L’impianto, di un ettaro e mezzo e ormai in vista dell’ottenimento della certificazione biologica, è stato interamente rinnovato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ed ha dunque oggi circa 25 anni di età media. Del sacrificio delle vecchie vigne, oggi, ci si duole un po’; se non altro, la scelta dei portainnesti nel reimpianto ha migliorato la situazione, innestandosi nel progressivo ripensamento dei vecchi canoni con l’adozione di piedi più deboli e qualitativi: qui c’è ora del 420A e dell’SO4.

Dopo la raccolta, che avviene mediamente nella seconda settimana di settembre in un’unica passata, le uve vengono raffreddate per un paio di giorni a 4 gradi, poi pressate e avviate alla fermentazione alcolica a temperatura mai superiore ai 20 gradi centigradi. Dopo 6 mesi di maturazione in acciaio, il vino viene imbottigliato, brevemente affinato, e posto quindi in commercio, “tirato” in circa 15.000 esemplari all’anno.

La sensazione che abbiamo avuto, a consuntivo, è che se proprio si volesse cercare un appiglio nel variegato panorama del Riesling mondiale, alla caccia di termini di paragone per Gli Orti, occorrerebbe guardare all’espressione alsaziana, più che a quelle tedesca o austriaca. Il Riesling di Frecciarossa, e la cosa si fa più evidente man mano che affina in bottiglia, ha una naturale estroversione ai profumi, una sostanza piuttosto grassa ed estrattiva, una acidità presente e mai troppo aspra, e un bilanciamento che nelle tre o quattro bottiglie uscite come le migliori dall’assaggio ha qualcosa di davvero ammirevole. Forse, il segreto della sua longevità – una sola bottiglia al crepuscolo e una molto evoluta ma ancora in piedi su 16 aperte – è proprio qui: nel riassumere una sinergia positiva tra la vigna e la varietà, entrambe di vocazione sicura, ma sempre in un contesto di equilibrio, senza forzature.

La degustazione delle sedici annate descritte si è svolta nei locali aziendali in due sessioni, nel luglio del 2016.

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OLTREPÒ PAVESE RIESLING GLI ORTI 2014-1992

2014
Delicatezza e sostanza: contesto leggibile nonostante la giovane età. È di un oro chiaro e brillante, e un leggero profumo di malto, albicocca fresca e fiori gialli è quanto esibisce nella prima mezz’ora dalla stappatura. L’assaggio è di buona intensità lungo lo sviluppo, e in fondo rimanda allo iodio, al lentisco e ai fiori viola: persistenza fatta più di proporzione che di lunghezza, appena aspra in fondo. Considerando le negative evenienze climatiche dell’annata, umida e buia nella fase decisiva, è un esito più che accettabile.

2013
Da un’annata più classica del 2014, un’edizione superlativa. Ha qualche nota curiosa in avvio, tra l’erbaceo e il sulfureo, e qualcuna estiva di latte di fico e frumento, sul dolce sfondo che pian piano si squaderna, spaziando tra la rosa bianca, l’agrume, la buccia d’uva, il pan di spagna. Sorso “all’alsaziana” per grassezza e compostezza; ampio da subito, ricco e continuo, equilibrato dal lato tattile e complesso da quello aromatico; chiude su freschissimi richiami di lantana e zenzero.

2012
Versione superiore alla media del millesimo in zona, almeno per i bianchi: contrariamente al consueto, è un bianco di notevole articolazione, composto e di grintosa vitalità minerale, con un bouquet di mela gialla, fiori, alghe e un leggero soffio balsamico, e una bocca salda e interessante. Chiude tonico, sulle pure note saline e quasi marine in cui il profumo aveva lasciato sperare. Difficile che possa migliorare, ma la sensazione che ci ha lasciato è che “terrà la nota” a lungo.

2011
Annata in Oltrepò calda, regolare, abbondante e quasi noiosa per i produttori, tanto poco c’era da fare in vigneto. Da uve sanissime e stupende è sortito fuori il più “alsaziano” Riesling della verticale: un giacimento aromatico generoso e vasto, con un côté erbaceo secco (fieno, cereali), una bordata di frutta esotica, qualche traccia balsamica e affumicata. In bocca è vivace, compatto, di struttura non timida: difetta un po’ di tensione, non certo di materia; chiude imponendo i suoi sapori più semplici, fruttati e salini.

2010
Colore giovanile e scintillante e straordinario profumo inaugurato da una vena rôti di resina e trementina, e che apre poi a complessità minerali, agrumate (fiore e foglia del limone), erbacee di rosmarino e con un soffio etereo di fondo. Impeccabile anche il gusto, fragrante e puro, irrorato da un’acidità che ne detta i tempi, ma granitico in fondo, dove sfuma tra sensazioni gessose e ritorni retrolfattivi legati alla presenza di muffa nobile. Da cercare, e, una volta trovato, da chiudere al buio per dieci anni, onde poi ritrovarsi con ogni probabilità un piccolo capolavoro in cantina.

2009
Tipico parto del millesimo: un bianco massiccio, alto in parecchi parametri, già in evoluzione in quanto maturo nella frazione fruttata, con note floreali dolcissime, “spampanate”, e altre di torrone bianco e mandorle. Al sorso denuncia ancora più chiaramente il suo stato evolutivo avanzato per i sette anni che ha, e il finale, un po’ maltato, non ha la perfezione di dettaglio di altri esiti qui descritti; propone placidamente una speziatura come di cannella, o noce moscata. Appagante e barocco; il consiglio è di aprirlo presto.

2008
Annata dal clima complicato e irregolare, ma vino riuscito e in perfetta forma: una schematica nota fruttata di mandarino e pesca balza quasi dal bicchiere, ma indagando meglio filtrano suggestioni cerealicole e saline di maggiore originalità. Assaggio un po’ ruvido, ordinario per complessità e non così persistente, giocato soprattutto sulla presenza “fisica” a centro bocca; ha un aspetto positivo nella definizione aromatica e uno negativo nella sostanziale semplicità dell’insieme.

2007
Una prima, vera sorpresa nella verticale: un Riesling vitalissimo, custodito negli anni da una riduzione da cui deve essersi liberato da poco, e che ne ha enfatizzato la quasi tetra frazione minerale. Il bouquet muove da cupe note di “tubazione” e ruggine, ma via via, in una ventina di minuti, si rischiara aprendone di erbacee (salvia), e floreali (tarassaco). Al sorso nulla appare precario o crepuscolare; la puntuale acidità rinfresca un profilo che sfuma lungo su un’intensa sensazione sapida.

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2006
In Oltrepò, come altrove, questa fu un’annata calda, capace di esprimere potenza, raramente dettaglio, nei vini che ne scaturirono. Questo bianco, dai profumi complessi, è “orizzontale” nella fisionomia, ampio, fruttato e balsamico, esente da note vegetali o crude e per questo, di nuovo, capace di evocare i modelli alsaziani. Sfumature di pescanoce colorano un assaggio prestante ed estrattivo, in fondo al quale la nuance ferrosa staglia sul resto, e incornicia una bocca integra e fresca, con un tocco di botrite che scintilla all’epilogo.

2004
Frutta secca (mandorla sbucciata, nocciola verde) e mimosa al naso, poi tocchi salini e di erbe aromatiche tipo la salvia e il timo, a costruire una silhouette interessante. Il sorso non smentisce l’impressione: ha media intensità e un suo bilanciamento, senza asprezze e senza fuochi d’artificio aromatici. A consuntivo, ha due punti di forza nel nitore e nella compostezza; e due deboli, la scarsa complessità dell’insieme e una “lettura” minerale quasi svogliata, conseguenza della quale è una persistenza deboluccia.

2003
Come quasi sempre si rileva nel rovente millesimo, il colore è quello di un vino più giovane e il profumo è diverso da quello di tutti gli altri della verticale: nuance rugginose, di caffè in polvere, un frutto esotico e maturo, spezie. La dotazione acida del vino, se non proprio in tensione, è sufficiente a tenerlo in equilibrio; sfuma con ricercata finezza. Si beve benone. Non è un bianco geniale ma può essere conservato per diversi anni ancora, e anche questo è un tratto che sarà il caso di accordare ai 2003, liquidati all’epoca con troppa fretta visti gli andamenti climatici oggettivamente estremi in tutto il paese.

2001
Prima annata a mostrare la corda, sin dal colore aranciato: odori di dattero stramaturo, noce, carne frollata e colla preludono a un assaggio che ormai ha perso fibra. Il centro bocca quasi vuoto e i ritorni retrolfattivi di tisana e frutta fermentata non fanno che confermare il giudizio; l’insieme è sciroppato. Una seconda bottiglia era in condizioni identiche. Amen.

2000
Il colore sostenuto non anticipa, per fortuna, un profumo compromesso. Certo, la freschezza giovanile è passata, e forse questo millesimo ha vissuto da tempo i suoi momenti migliori, ma il bouquet di luppolo, agrume candito, albicocca matura e fiori un po’ fané ha il suo fascino. Singolarmente vitale invece in bocca, dove pare di assaggiare un bianco della Loira della stessa età tanto efficiente è ancora l’asse di acidi e sali. Non troveremmo appigli, alla cieca, per identificarlo come Riesling (forse azzarderemmo invece “Chenin Blanc?”), ma è bottiglia di una classe e di un’armonia che non avremmo pronosticato.

1999
Come in altri luoghi classici dell’Italia nord-occidentale, è stata una buona annata, calda e regolare; “proprio quel che non serve al Riesling” annota a questo punto un degustatore. Il tono generale del vino è maturo, ricco di tutto: tanta “ciccia”, tanta acidità, tanti aromi. Sa di aloe, pompelmo, magnolia, paprika, metallo, e dopo mezz’ora forse anche fungo e alloro. Ciò che ha di davvero magnifico è la definizione, specie al palato, dove l’acidità funziona come un laser; sfuma con lentezza tra rimandi minerali. Immancabile, a trovarne: almeno per altri cinque, forse dieci anni potrebbe reggere e persino progredire.

1994
Il colore scuro e torbido non promette niente di buono, e l’indagine olfattiva lo spiega: è ossidato. L’assaggio si appoggia ad un’acidità sferzante e a qualche rimando fruttato non del tutto arreso; tuttavia, non c’è più margine di evoluzione per questo millesimo del resto mediocre nel distretto.

1992
Annata disperante in tutta Italia per le varietà tardive, ma non avara di sorprese per il resto. Ed eccone una veramente clamorosa. Il colore è irreale, un oro chiarissimo e brillante, simile a quello di annate come 2009 o 2007, e il profumo, inizialmente delicato negli sbuffi di talco e pietra pomice, schiude poi una declinazione agrumata, dal fiore e dalla scorza del limone al seltz, con accenni speziati. L’assaggio rivela un liquido dal talento meraviglioso, dalla struttura integralmente coesa eppure affusolata, precisa, tanto fresca da lasciare attoniti. Epilogo di purezza montana, con echi di resine ed erbe. Un enigmatico incanto, e da qualsiasi parte lo si osservi il miglior vino della degustazione.

(Per gentile concessione – da “ViniPlus di Lombardia”, settembre 2016)

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