di Raffaella Guidi Federzoni
Questo è il tempo dell’astinenza e della penitenza. Dal punto di vista puramente enoico l’astinenza più ovvia sarebbe quella da alcol e la penitenza più dura quella di bere vino cattivo.
Mentre però l’attuazione della prima non presenta difficoltà – a parte effetti collaterali come sbalzi d’umore, secchezza delle fauci, insonnia e tendenze omicide – per mettere in pratica e perseverare nel sacrifico di bere vino cattivo, qualche problema c’è.
Mi chiedo infatti se esistano davvero, ancora, vini cattivi. Già vedo una folla di mani alzate per denunciare questo-codesto-quello. Un momento Signori, io non parlo di vino mediocre, anonimo, insipido. E nemmeno di vino difettoso, ossidato, brettato, acetato. I primi sono vini neutri, i secondi, sbagliati. Sto pensando invece a vini fatti male, vini fastidiosi nel loro essere sgradevoli e approssimativi, con un sapore cattivo di medicina. Vini i cui produttori hanno tirato via, pensando che tanto qualcosa comunque sarebbe venuto fuori.
Sicuramente questi esistono, ma trovarli non è facile. Dagli scaffali dei supermercati si tirano giù bottiglie o persino brick che hanno nel contenuto lo sforzo industriale per sfornare un prodotto pulito, senza difetti, dimenticabile. Lo stesso si può dire per tante vendite on line, a forza di sconti capisci che quello che compri è un prodotto di marketing e come tale non è tanto offensivo per i sensi quanto per il cervello. Ci sono vini anche costosi che non mi piacciono, vanno contro il mio gusto, ma che non si possono certo definire cattivi.
Io penso al vino del contadino, ma di quello di una volta. Quel liquido scuro torbido e pesante, oppure bianco scarico e dolciastro. Penso al vino che arrivava dalla cantina del cognato del cugino di terzo grado. Al vino che ti ritrovavi a bere d’estate con quaranta gradi all’ombra e dovevi pure dire “mmhhhh, genuino!”, facendoti strada faticosamente con la lingua fra le guance chiuse a riccio. Penso al vino che la prozia tirava giù dal mobile buono in salotto, nato cattivo e col tempo diventato pessimo. Una bottiglia tenuta per gli ospiti di riguardo in casa di astemi.
Quel vino non esiste quasi più, solo in qualche nicchia di resistenza pervicace. Come i guerrieri giapponesi nella giungla malese, ogni tanto ne spunta fuori uno decrepito e convinto che la guerra non sia mai finita.
D’altra parte anche la penitenza quaresimale è ormai un ricordo. Noi siamo una generazione che si ritiene in perenne sacrificio e se rinunciamo a bere è solo perché ce lo dice il medico. Tutta la penitenza che ci possiamo permettere è quella di rimandare l’acquisto di quelle sei bottiglie pregiate a dopo Pasqua. Oppure di regalare l’ultima bottiglia preziosa della nostra cantinetta a quell’antipatico del capo ufficio che non ci capisce nulla, ma ne ha sentito parlare.
Finito di scrivere nella IV domenica di Quaresima, dopo tre giorni di astinenza. Stasera mi stappo una bottiglia peccaminosa, senza alcun senso di colpa.