di Fabio Rizzari
Alla domanda: “perché soffri?” l’Elettra sofoclea – o euripidea? ora non ricordo – risponde: “perché non ho un’opinione”. Affermazione decisiva per la cultura occidentale, e per la cultura planetaria in generale.
Dopo decenni di sistematica deprivazione delle più elementari facoltà di interpretare le cose, pochi riescono a stabilire il nesso tra il paletto nel deretano e il piantatore del paletto nel deretano.
Nella sua ignoranza universale, il contadino medievale cui bruciavano il campicello era in grado di ricostruire il banale passaggio causa/effetto: chi ha bruciato il campo è stato lui, il valvassore, il valvassino, insomma il signorotto locale.
Oggi il principio di separazione allontana, vela, nasconde, come nel gioco delle tre carte, la causa reale dall’effetto. Un pilota di aereo militare sfiora uno schermo elettronico, come in un videogioco, e mentre sta già atterrando il suo missile distrugge un quartiere a cento chilometri di distanza. Un broker di New York specula sul caffè e a diecimila chilometri e qualche mese di distanza un’intera popolazione è ridotta alla fame.
Per la stessa tecnica illusionistica, milioni di italioti sono all’oscuro di tutto. Non mettono a fuoco – in senso metaforico e men che meno letterale – chi li ha ridotti allo stremo. Non hanno un’opinione, non gli hanno permesso di averla. Quel che è peggio, pensano di averne una; un simulacro di opinione, un mozzicone di idea che non arriva ad afferrare nemmeno una parte infima del reale stato delle cose.
Così coltivare un orticello di opinioni significa coltivare una visione complessiva, unitaria della realtà, quale che sia (la visione finale). Così interpretare un oggetto, un avvenimento, magari già che ci siamo un vino, non può mai essere un atto separato e iperspecialistico.