Dal punto di vista degustativo – e non propriamente chimico – con il termine tecnico di “riduzione” si intende in modo approssimativo il fenomeno per il quale un vino non è pulito all’olfatto. Le cause possono essere varie, l’importante è sapere che per lo stappatore seriale esistono due tipi di riduzione: la riduzione che tende a sparire aerando il vino, e la riduzione che non va via nemmeno versando il vino nella vasca da bagno e lasciandocelo per due settimane.
Insospettabilmente, del secondo tipo fanno parte odori sgradevoli emanati da prodotti anche prestigiosi: per l’enofilo è un accadimento sconcertante, al quale non sa (e non vuole nel profondo) rassegnarsi. La sua mente vacilla davanti all’eventualità che la bottiglia amorevolmente custodita in cantina per anni possa contenere un liquame maleodorante all’origine. Preferisce quindi trovare mille attenuanti generiche: bottiglia difettosa, fase evolutiva di chiusura, fino alla negazione tout court che il vino puzzi (proprietario della bottiglia: “uhm, bisogna aspettarlo ancora qualche minuto, ma si sta già liberando” – ospiti poco diplomatici: “ma che dici? non senti che puzza di talpa morta?” – proprietario: “no, sono note terziarie complesse, siete voi che non capite”).
Dopo anni di stappature, con tutto il ventaglio degli esiti possibili, dalle esperienze mistiche alle delusioni cocenti, riesco per fortuna a non bermi più l’etichetta e a tenere a bada l’ansia da prestazione quando apro un vino particolare. Dopotutto, non sono io che l’ho prodotto, mica devo difenderlo aprioristicamente solo perché l’ho pagato un rene, l’ho conservato per decenni e ne ho parlato prima per venti minuti annoiando i commensali…
Fatta questa ampia premessa, ieri sera sono stato a lungo incerto se l’impresentabile naso del Clos de Tart 2000 portato a cena da amici appartenesse al primo o al secondo tipo di riduzione. Perché per puzzare, appena aperto puzzava, e parecchio: note di sentina, acqua stagnante di porto (più precisamente, acqua stagnante di porto vicino all’attracco dei traghetti), busta dell’insalata lasciata troppo in frigo, vernice acrilica, trancio di salmone
di tre settimane.
Il noto rosso borgognone ha resistito in questa configurazione ostile per ben tre ore, nonostante la pronta scaraffatura (in un decanter/fioriera di sessanta centimetri) e la disperata tecnica psicologica di ignorarlo (come si sa, più si tiene spasmodicamente a un risultato gastronomico o enologico, più quel risultato si allontana). Alla fine sono stato costretto a usare la temibile arma del doppio decanter. Un metodo barbaro, indegno di un paese civile, ma capace talvolta di risolvere casi disperati. Molto semplice: si prende un secondo decanter e si compiono tre o quattro travasi forzati dall’uno all’altro recipiente. Lo scopo non è tanto di ossigenare con violenza il vino, quanto di stordirlo, di disorientarlo momentaneamente, fiaccandone la determinazione a rimanere puzzicchiante. Ieri ha funzionato. Il celebrato grand cru ha svelato le sue doti. Certo, il 2000 non è un’annata memorabile per il Clos de Tart, ma la delicatezza del tocco al palato, la finezza dei tannini, il finale modulato e armonioso erano dove ci si aspettava di trovarli.
Doppio decanter, quindi, ma ricordate: solo in casi gravi.
F.R.