
di Raffaella Guidi Federzoni
Ha un viso che sembra scendere da un affresco rinascimentale ferrarese, ma non è un’aristocratica nobildonna della corte estense, è una femmina contemporanea dalla mente acuta e intelligente. Si chiama Francesca Ciancio, da decenni si occupa di vino e cibo, persone e paesaggi ad essi legati. L’idea di questa intervista è nata mesi fa, davanti a un reciproco bicchiere di vino e finalmente si è realizzata.
Le ragazze chiacchierano tanto (cit. Peter Pan), raramente a vuoto. Ora smetto di farlo e lascio parlare lei, perché vale la pena.

Mi racconti come sei approdata a scrivere di vino/cibo e il tuo percorso professionale precedente?
Ho sempre voluto fare la giornalista. Credo di averlo deciso a undici anni, durante l’ora di educazione civica (Gesù, se sono vecchia!). Avevo le idee meno chiare sull’ambito e credo che il freno maggiore fosse legato alla timidezza. Fare cronaca o politica richiede una certa sfrontatezza che non ho mai avuto. Però mi piaceva ascoltare le storie e metterle per iscritto, tragiche o comiche che fossero. E l’intervista, ancora oggi, ritengo sia la cosa che mi riesce meglio. Se il vino sia arrivato per caso o per Il Caso non saprei dirti. A distanza di anni credo sia stato un buon compromesso tra il desiderio di pensarmi come inviata di guerra (sic) e redattrice del desk del Televideo. Cinismo a parte, penso che il mondo enogastronomico sia un catalizzatore di storie infinite e potenzialmente interessantissime. Poi, certo, ci vuole una buona storia e una buona penna. Ho omesso tutto il percorso precedente, ma su Linkedin c’è tutto.
Considerando quando hai iniziato il tempo presente ti sembra molto diverso dal punto di vista comunicazione e sua percezione?
Io sono una signora del Novecento! Ho sostenuto l’esame di ammissione alla scuola di giornalismo con la macchina per scrivere e avevo come presidente di commissione Enzo Biagi. Quando 20 anni fa ho iniziato a pensare che il vino e il cibo potessero diventare un lavoro avevo un profilo Facebook con una media di 3 likes a foto. Giravo video in SD (standard definition), portavo ancora qualche rullino a stampare. Ogni nuovo social network, ogni nuova evoluzione tecnologica, mi sembrava uno tsunami pronto a cancellare ogni cosa esistita in precedenza. Con la mia ansia digitale pian piano ci ho fatto pace, riconoscendo anche i limiti della mia emotività analogica. Faccio più fatica ad accettare l’idea che la differenza tra informazione e comunicazione sia trattata come una questione di lana caprina nel settore. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì trovo che il presente sia molto diverso e non ci abbiamo sempre guadagnato. Non è solo una questione di percezione, è proprio che c’è tutta una scuola – come possiamo chiamarli? – di creatori di contenuti che non si pongono il problema. Che è poi l’elefante nella stanza. Di chi è la responsabilità? Degli editori che pagano poco, di una formazione approssimativa, di confini liquidi tra mestiere e deontologia, della tecnocrazia più recente che dice che il fact checking non è più necessario, del non badare al lettore ma al cliente.
Un tema sempre manipolato e spesso trattato con superficialità è quello della presenza femminile nella comunicazione del vino; da una parte c’è un certo paternalismo e dall’altra un’indifferenza rumorosa. Ti sembra che qualcosa stia finalmente cambiando o che siamo sempre ferme al Via?
Aggiungerei anche il sarcasmo da parte di molte donne del settore sul tema. Non so dirti perché manchi una sensibilità sulla questione femminile ancora oggi. So che esiste la discriminazione, il paternalismo, il continuo mansplaining. Voltarsi dall’altra parte è come voltare le spalle a Susan Sontag, a Carla Lonzi, ma anche a Norah Ephron e a Michela Murgia. Il cambiamento mi pare soggetto a un pericoloso saliscendi: mentre pare che le cose migliorino, poi il contesto – che per me rimane fondamentale – affossa i passi in avanti, anzi talvolta ci fa regredire. Lo Zeitgeist del momento non mi pare favorevole a un dialogo maturo tra i generi. Ripongo qualche speranza nella fluidità delle nuove generazioni.
All’interno del campicello nostrale, per quanto riguarda la produzione vinosa ci sono nuove tendenze produttive? Nel senso di interesse per denominazioni e/o luoghi semisconosciuti.
Con l’avvicinarsi al vino dei più giovani credo aumenti l’interesse per tutto quello che è “lontano”, anche un po’ esotico. È spesso l’idea di viaggio ad accompagnare la scoperta di un’etichetta e questa esigenza mi pare più forte tra ragazze e ragazzi, abituati a viaggiare molto più di noi. C’è molto meno riverenza rispetto alle denominazioni più blasonate. E quel certo “nonnismo enologico” che ho conosciuto all’inizio del mio percorso ha perso la spinta ossequiosa. Anzi, ogni tanto parte qualche sberleffo ed è una cosa che sinceramente mi diverte molto.
Nel tuo mondo ideale c’è un progetto particolare che ti piacerebbe affrontare e portare a termine?
Per citare un’altra donna attenta alla causa femminista, Virginia Woolf, direi che è arrivato il momento di una stanza tutta per me.
Hai dei punti di riferimento professionale, uomini e donne che ti hanno ispirato/aiutato/supportato?
Qui non mi farò molte simpatie nel settore, ma ho capito che gli esempi che mi servono nel mio lavoro non vengono dal mondo del vino e del cibo. Mi spiego meglio: ci sono donne e uomini bravissimi nel racconto, nelle degustazioni, nelle presentazioni, ma a un certo punto mi annoio. Oggi più di prima. Magari è l’abitudine, ma è anche colpa di un lentissimo aggiornamento dei format e di una autoreferenzialità dura a morire. Aiuto e supporto non mi sono mancati ma ho detto a tutti e a tutte loro quanto sono stati importanti. Preferisco solo tenere per me quei nomi. Però mi piacerebbe ringraziare Raymond Carver per tutti i suoi lampi di onestà. Ecco, credo che l’onestà sia una roba potente se racconti le cose. E poi c’è l’ironia che serve anche se ti cimenti in robe tristi, perché fa da filtro al patetico. E qui ringrazierei David Sedaris.
Qui sei libera di levarti i sassolini dalle scarpe, ci sono argomenti o atteggiamenti che ti hanno fatto arrabbiare e continuano a farlo?
Mi fa arrabbiare il greenwashing, la parola sostenibilità sparsa come il pepe sulle cozze, il maschile esteso, spendere cifre spropositate per una bottiglia di vino (quanto? Dai duecento euro in su faccio fatica a capire, lo ammetto), le mail con proposte di articoli che non hanno risposta, la protervia fatta passare come leaderismo, i ristoranti che non hanno sistemi di ventilazione adeguati (quindi oltre al conto calcoli anche lo scontrino della lavanderia), le marchette non solo evidenti ma anche giustificate con il “tengo famiglia” (che in realtà denotano una scarsa capacità di fare new business). Mi limiterei all’ambito lavorativo, cara Raffaella…
Quali sono secondo te le qualità necessarie per fare della buona comunicazione e informazione?
Essere curiosi (e per lo più ci si nasce, quindi se non c’è curiosità, meglio fare altro) e poi leggere, di tutto. Essere onnivori di parole e immagini. E provare ad avere uno sguardo gentile sulle cose e sulle persone. Lo dico perché a me non sempre riesce. Mi ci devo applicare.
Hai consigli per chi decide di affrontare l’esperienza di lavoro nel mondo della comunicazione relativa al cibo/vino?
Di non soffermarsi sul vino e sul cibo in sé, ma di usare questi prodotti come mezzi per esplorare tutto il resto, creare collegamenti, sincretismi, relazioni. Nel cibo e nel vino ci sta comodamente tutto: politica, economia, cultura, arte, natura, scienza. Guerra e pace.

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