di Fabio Rizzari
Questa è la storia di una storia, o se si preferisce la storia della storia di qualcun altro. Non contiene quindi notizie di prima mano, ma di seconda e terza mano.
Nella primavera del 1999 mi trovano a Bordeaux per il tradizionale appuntamento con i Primeurs, vale a dire gli assaggi in anteprima della nuova annata, la 1998. Ricordo confusamente che con il Gentili battemmo numerosi Château, trovando davvero formidabili soprattutto Cheval Blanc e ovviamente Ausone. Già in quella fase precoce si diceva infatti che la ’98 aveva dato prove più convincenti nella Rive Droite.
Ricordo pure che – grazie all’amichevole intercessione di Alexandros Masnaghetti – riuscimmo ad accedere ai blindatissimi stabilimenti Moueix, a Libourne, per degustare la loro gamma; e che dopo un’oretta noi e il Masna uscimmo in strada sbalorditi dalla bellezza di Pétrus ’98 en vin jeune. Un’eccezione per me. Pétrus mi lascia in media indifferente e anzi mi sta vagamente sui coglioni.
E dunque, durante uno dei pranzi iperlipidici della trasferta (all’epoca si mangiava ogni giorno in uno Château differente: di solito fette di burro cosparse di burro fuso con al centro fette di petto d’anatra e fegato grasso), un collega francese, Jean-Pierre Peyroulou, mi parlò della sua bottiglia del cuore.
Mi disse che anni addietro aveva avuto l’incommensurabile fortuna di bere un bicchiere di Château Latour 1920; e che l’aveva trovato paradisiaco.
Forse perché ero reduce da una mattinata di assaggi – con relativo inevitabile ingurgitamento d’alcol -, forse perché la storia era davvero affascinante, mi ritrovai ad ascoltare con la mandibola che toccava il terreno. Le parole precise sono svanite. Un dettaglio lo ricordo però ancora bene, il paragone con il palloncino di un bambino: “la cosa che più mi ha impressionato è stata l’espansione al palato”, diceva Jean Pierre, “il gusto si dilatava come un palloncino che si riempie d’aria”.
Questa capacità di espansione, di riempimento di ogni minimo spazio del cavo orale, è rara perfino nei vini migliori, nei vini più completi. Anzi, ripensandoci riempimento non è la parola, dà troppo l’idea di una saturazione. Diciamo di capacità di toccare, sollecitare, far vibrare ogni singola papilla gustativa.
La recente scomparsa di Michael Broadbent, storico esperto di vino britannico e ingurgitatore di tutte le meraviglie vinose create dall’uomo, mi ha fatto tornare in mente quel remoto episodio. Nel suo fondamentale The great vintage wine book Broadbent conferma:
Non ho mai bevuto Latour 1920. E c’è una possibilità su 4.023.997 che mi capiterà in futuro. Ma grazie alla descrizione ispirata del mio collega è come se ne avessi bevuto una singola goccia; almeno.
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