2020 Speedball

di Giampiero Pulcini

“Giuse’, che te serve oggi?”
“… so’ tre giorni che non vengo…”

Ipercoop di Terni, ore 8:20. Un commesso saluta il pensionato tarchiato che spinge il carrello pieno di pasta, latte, uova, tonno, biscotti e acqua minerale. La bonarietà del primo fa trapelare l’assiduità del secondo nel percorrere quei corridoi murati di merce. Sciarpa sul volto da ultras del 3×2, sgattaiola furtivo verso il banco del pane confondendosi tra le casse di frutta e verdura, di cui replica le proporzioni. Elettrizzato da tanta efficienza, scorro sul cellulare la lista della spesa tarando la clessidra sui dieci minuti. Li trascorro immobile davanti allo scaffale dei gin, come rapito da un raggio alieno. Una telefonata mi desta dal trance, raffazzono qualcosa che dia senso al concetto di spesa e punto la cassa. Esco. Strade vuote ma non è domenica. Tricolori ai balconi ma non c’è Italia-Germania. Il cielo è radioso ma non è una bella giornata.

La terza guerra mondiale è arrivata senza avvisare, senza neanche un feticcio da odiare. La paura ha preso forme bizzarre nei surrogati di mascherine latitanti: dalla carta da forno a quella igienica passando per reggiseni e assorbenti, col picco ansiogeno di sparute maschere antigas. Ignorando l’apocalisse incombente parrebbe quasi di stare in vacanza. Ma siamo prigionieri, con la concitazione interiore acuita per contrasto dalla stasi di piazze e negozi.

Anche il vino è recluso. Oggi che incontrarsi tra amici è reato penale, chiedo ancor più alla bottiglia ciò che in fondo vi ho sempre cercato: compagnia. Come a un libro o a una canzone. In cantina racimolo briciole di residua umanità. La tensione da rischio-contagio delle ore lavorative si scioglie la sera mescendosi a liquidi color oro, ambra, rubino, granato. Sorso dopo sorso allento il collo e le spalle, risveglio immaginazione. Certo, l’ebbrezza. Non sarebbe uguale però stordirsi di vodka; quando un Trebbiano o un Sangiovese ci tocca, lo fa con onde che aprono e svegliano.

La spontaneità espressiva di certi vini può spiazzare le aspettative. Per distrarmi dal telegiornale, di qualcuno ho abbozzato impressioni su una vecchia agenda telefonica che arreda il tavolo accanto al divano, normalmente usata per testare le penne. I sussulti nella calligrafia svelano una ribellione verso me stesso, contro la mia dispersiva coazione ad astrarre. Non c’è nulla da concettualizzare in un bicchiere chiamato a diluire l’angoscia, specie nell’ultimo prima di andare a letto mentre con gli occhi socchiusi fisso il televisore senza guardarlo. Il vino fuso al tutto, nell’attimo, con l’alcol che bagna la stanchezza e porta una resa ovattata.

Penso a cosa significhi essere liberi. Lo eravamo davvero prima che tutto ciò cominciasse? Restano nostri i desideri che desideravamo di avere? Mi piacerebbe credere che ciascuno nel quotidiano avvierà una piccola rivoluzione in grado di cambiare il mondo. Vorrei ma ne dubito. Spero solo si fermi questa ecatombe che pare venire dal nulla, che chi lavora negli ospedali non debba più sopravvivere facendosi eroe.

Annuso un refolo di primavera fuori dalla finestra. M’arrendo alla forza maggiore di un tempo sospeso, dentro cui nel bene e nel male recupero alcuni dei pezzi più veri di me.

Alla rinfusa:

 Garbagorba 2018, Cantina Ribelà
Cesanese comune innestato su vecchie piante di Malvasia, terreno vulcanico a Monte Porzio Catone in una valletta di bellezza incantevole. Vinificato in bianco e affinato sei mesi in damigiana. Bottiglia in stato di grazia, di spettacolare levità: note vinose e sulfuree, cartone umido poi aperto su rosa e agrumi. Bocca sapida, agile, ricercata nei ritorni di rabarbaro e ribes. Un rosato di carattere come pochi se ne trovano, da dedicare con profitto a cibi impegnativi.

Prosecco di Valdobbiadene ‘Vitale’ 2017, Malga Ribelle
Un ettaro e mezzo in collina governato con amore dal valoroso Vitale Girardi, su roccia marina a Farra di Soligo. Uve colte a piena maturità, rifermentazione sui propri lieviti in bottiglia dentro cui svolge anche la malolattica; non filtrato né sboccato. Profumi di panna fresca, pera coscia e camomilla tesi da un lindo sottofondo sassoso. Cremoso in entrata, secco ed erbaceo in allungo, valorizza la genuinità con la compostezza. Dissetante, ricostituente, si beve da solo che è un piacere ma merita la tavola: fenomenali gli abbinamenti con baccalà in pastella e formaggi giovani, specie di capra.

Tignamonte 2015, Margò
Trebbiano toscano da un fazzoletto marnoso-argilloso a fondovalle. Uve ricche di botrite, lasciate in pianta fino a Novembre per mancanza di spazio nella vecchia cantina. Fermentazione in acciaio, un mese sulle bucce, un anno in barrique non tostata, un altro anno in acciaio e infine in bottiglia senza solfiti aggiunti. Una centrifuga: lattuga, genziana, pan di spezie, curcuma e mango mescolati in modo da ricordare un Savennières, non so fino a che punto sia un complimento. Tocco glicerico inciso dalla volatile, finale originale di liquirizia e carciofo. Vino estroso, ipercinetico, privo di baricentro. Non ci ho capito niente ma mi sono divertito.

Rossese di Dolceacqua ‘Vigneti d’Arcagna’ 2009, Testalonga
Annata altalenante con diversi esemplari fiaccati da un’ossidazione precoce. Il mio stappo è fortunato: pot-pourri, passata di pomodoro e cacao in polvere, anguria a rinfrescare. Avvolgente e soffuso, conferma in bocca un calore propositivo che sfuma su eleganti sensazioni amare. La nomeranza Arcagna, in Val Nervia, è tra le più reputate della DOC per complessità e longevità dei vini che ne escono; da qui attinge la maestria di Antonio Perrino nel trasmettere al bicchiere i suoi modi teneri e diretti, inimitabili.

Le Boncie
Senza capsula né etichetta. Sbircio il sughero, leggo ‘boncie’ e impugno il cavatappi. Impatto più dolce che caldo, delizioso di terra e cassis. Una leggera carbonica solleva gli estratti, il piglio rigoroso è ingentilito da un accenno di zuccheri e spezie. Credo si tratti del Tondale 2011, da Sangiovese eccezionalmente raccolto surmaturo. Bottiglia di golosità fuori scala, aperta nel tardo pomeriggio e finita mezz’ora prima della cena cui era destinata.

Trebbiano d’Abruzzo 2013, Emidio Pepe
La fascinazione esercitata su di me da questo vino sfocia in una percezione forse ingigantita ma lampante. Qui la semplicità raggiunge la grandezza, forte di un genius loci con cui la famiglia Pepe è da cinquant’anni in confidenza. Una cartolina olfattiva, ruspante di fieno, malto e limone impastati da uno spruzzo di salamoia; bocca longilinea e reattiva, di trascinante energia. Verace senza essere brusco, sfoggia il medesimo aplomb agricolo del patriarca. Mosto fiore con piccola aggiunta di torchiatura, brevissimo affinamento in cemento e due anni in bottiglia. Stupefacente aderenza al reale nel trasfigurare in sapore la luce delle estati abruzzesi, alimentata in me dalla simmetrica oscillazione tra euforia e nostalgia.

Rosso della Gobba 2016, Raìna
70% Prugnolo Gentile, saldo ripartito tra Montepulciano e Sagrantino dalla giovane vigna ‘della Gobba’ accanto alla cantina. Produzione decimata dalle gelate primaverili; fermentazione in acciaio e maturazione in cemento, nessuna aggiunta di solfiti vista la destinazione a un consumo rapido e disimpegnato. Una feroce aggressione da brett ha imposto il ritiro dal mercato, un paio d’anni di bottiglia hanno sfumato il difetto in caratteristica. Salame fresco e pasta di olive ricordano che non siamo in Borgogna, sentori erbacei e silvani sdrammatizzano il tono sauvage dimensionandolo a un tassello del puzzle. Asciutto, succoso, nobilitato dal finale di kirsch e ginepro. Rusticità perfetta da associare al pecorino, idealmente in rapporto 0,750cl/0,500kg. Punk senza essere sciatto, da spensierata bisboccia campestre.

Bianchdùdùi’, Vittorio Bera & Figli
Vendemmia 2000, una vasca in cemento di Moscato d’Asti dimenticata in cantina e riscoperta quando la fermentazione era al punto da renderla inservibile per la DOCG. Proseguita lentissima e conclusa dopo quasi due anni, ha preceduto una spontanea formazione di flor sotto cui la massa è rimasta fino alla Primavera 2017. Eccezionale figlio del caso, questo ‘bianco del due’ mimetizza all’olfatto la sua genesi classicheggiando su note attraenti di fiori d’arancio, zucchero filato, anice e succo di albicocca. Fermo, secco e salato al sorso. L’ossidazione arriva nella delicata risacca di noce, panna acida e miele di corbezzolo sovrapposta agli echi varietali. L’audacia serba un quid riservato e confidenziale, stabilmente in bilico con la grazia di Philippe Petit che passeggia su un cavo teso tra le Twin Towers nell’estate dell’anno in cui nacqui.

Barbacarlo 2006
Cenere, china, stalla, smalto, benzina e fiori secchi, non necessariamente in quest’ordine; il Cavalier Maga sostiene sappia solo d’uva ma per concordare ci vorrebbe un’anosmìa. Austero, slanciato, luminoso. Scrivo ‘gotico gentile’ senza capire perchè. Liquido caleidoscopico: scabro, tannico, leggero, vivace, abboccato, paradossale nel finale tanto nitido quanto inafferrabile di rosolio. Né vecchio né giovane, fluttua tra l’antico e il visionario dando concretezza all’improbabile. Dall’omonimo vigneto in Valle Maga, comune di Broni, in produzione dal 1886. Tre ettari di ciottoli e arenarie spolverati su roccia madre, esposti a sud-ovest e assediati da un bosco di robinie; pendenza oltre 40 gradi con filari a rittochino di Croatina, Vespolina, Uva Rara e Barbera in proporzioni rispettivamente decrescenti. Vino ipnotico, capace in buona annata di immiserire ogni metodo standardizzato di valutazione. La battaglia ventennale condotta in solitario dall’autore per difenderlo, sacrificando tutto, ne fa aderire la vicenda alla sua vita come una maschera a un viso.

T16, Vincenzo Venturelli
La sigla, tracciata col pennarello sul tappo a corona, sta per Trebbiano di Spagna 2016. Vitigno vigoroso, tendente all’acinellatura, capace di mantenere acidità in appassimento e perciò usato per la produzione di aceto balsamico. Un ettaro di vigna pianeggiante tenuta come un giardino a Saliceto Panaro, appena fuori Modena, su base alluvionale carica di minerali. Un Trebbiano con le pailettes che non scade nel lezioso, elaborato frizzante tramite un metodo personalizzato messo a punto in decenni di esperimenti puntigliosi. Pesca, cedro candito e gomma tracciano un profilo da Vouvray brut. Sorso opulento, di soddisfazione, distante dalla verticalità stilizzata dei Sorbara del Prof. La vocazione da aperitivo vacilla di fronte alla fibra da invecchiamento; nel dubbio l’ho fulminato giovane su una doppia razione di gnocchi.

S4ch16, Vincenzo Venturelli
Qui l’indicazione, ancora più criptica, è vergata con l’UniPosca bianco sul vetro impolverato. Vecchio clone di Sorbara reperito a fine anni ’70 in località Sozzigalli tramite Enrico Montanini, allora enologo di Mauro Chiarli. Annata 2016, quarto passaggio vendemmiale vinificato a parte e destinato a diventare Siampàgn con l’aggiunta di mosto fresco refrigerato in misura doppia rispetto all’ancestrale. Bottiglia eclatante, un distillato di soavità: visciola, bergamotto e una sbalorditiva evocazione gessosa di stampo champenois, totalmente inspiegabile date giacitura e tessitura del terreno. Fende la lingua con precisione millimetrica, saettando verso un epilogo di menta e mela verde. È un tutt’uno, nel tempo rapido della bevuta, tornare col cuore alla Trattoria Entrà: alla dolcezza di Antonio, ai voli pindarici con Gaia e Filippo, al Prof che finge di litigare con Ivan sul ripieno dei tortellini. E quasi commuoversi al pensiero di quanto sia bella l’Italia.

 

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