di Raffaella Guidi Federzoni
“L’Italia ha raggiunto la Francia come qualità per i rossi, ma per i bianchi è ancora lontana”. Questo giudizio lapidario era condiviso e proclamato da mio padre, vero maschio di cultura italiana, rimasto ancorato agli anni Cinquanta fino alla sua dipartita nei primi anni Duemila. Nel suo giro di conoscenze era l’Esperto di vino, avendo superato brillantemente i tre corsi per diventare sommelier presso l’appena nata AIS romana.
Mio padre ha bevuto vino ogni singolo giorno della sua vita dai diciott’anni fino agli ottantatré e tre quarti, ciononostante non è mai andato oltre certi luoghi comuni relativi al mondo enoico. Ho come il sospetto che non sia il solo e che ad affiancarlo ci siano tutt’ora stuoli di wine aficionados più giovani e più scafati.
Negli anni più o meno recenti, la Germania si è accomodata accanto alla Francia nell’Olimpo dell’eccellenza mondiale nei vini bianchi, riprova che senza questo duopolio bianchista la vetusta Vecchia Europa annegherebbe sommersa da oceani di Chardonnay, Sauvignon Blanc, Riesling, provenienti da continenti più Nuovi. Unico baluardo barricadero italiano per decenni è stato il Pinot Grigio, ma ormai a nessun frequentatore di ristoranti dal livello medio basso, ovunque nel globo al di là delle Alpi, frega nulla dell’origine territoriale di quel PG al bicchiere che appare sulla prima pagina della lista dei vini.
Il secondo decennio del terzo millennio si è concluso e in questi tempi foschi per consolarci o perderci del tutto continuiamo a preferire vini rossi di alto livello, se si tratta di vini italiani. Le spese folli, le genuflessioni, il lastricato verso gli inferi, sono colorati di rosso – vermiglio, rubino, granato, corallo -. Il bianco, che poi bianco non è mai, è destinato a rimanere al massimo second best
Questa è forse la realtà, sicuramente non tutta la verità.
La mia verità.
Sottolineo il “mia” perché quanto scrivo è una mia personalissima opinione, formatasi esclusivamente utilizzando il fiuto e l’esperienza. Il fiuto nell’annusare folate d’aria nuove, spifferi più che cicloni.
Delle brezze che mi stanno sospingendo senza parere verso spiagge diverse.
Riporto qualche dettaglio degli ultimi tre assaggi effettuati di recente
*Colore: giallo carico brillante. Naso: tiglio, miele di acacia, camomilla, calendula, fico bianco, pesca gialla, mandarino e kumquat. Bocca: appena ossidativa, carica, si ripresentano gli stessi aromi avvertiti al naso, più arancia rossa, frutta secca – soprattutto noci -. Acidità scattante e manciate di sale che però non attenuano la componente aromatica.
** Colore: giallo paglierino tendente al dorato. Media intensità. Naso: ricco di agrumi – pompelmo su tutto -, ginestra, gelsomino, zagara. Pepe bianco, fieno fresco, timo. Bocca: sapida, speziata, pungente, vibrante. Sorso lungo, un tocco di erba e fiori secchi.
*** Colore: giallo paglierino tenue con sfumature verdoline. Naso: pulitissimo, note erbacee presenti ma non eccessive, biancospino, pesca bianca, tiglio, anice. Pepe bianco. Bocca: ricca di sale e lime. Balsamica, slanciata, un poco verde sul finale.
Non si tratta di scoperte, bensì di realtà che pensiamo già affermate se non altro per il nome: Albana, Fiano, Verdicchio. Chi è che non le conosce?
Loro, loro non le conoscono, quelle migliaia, centinaia di migliaia di possibili futuri appassionati, residenti al di fuori del nostro mercato ristretto, del nostro campicello italico. Persone degnissime che ignorano non solo le sottozone, i luoghi e la rispondenza con i vitigni, ma proprio i nomi in sé.
Così come la stragrande maggioranza di consumatori italici ignora il Blanc de Morgex et de la Salle Valdostano, l’Erbaluce di Caluso, la Vernaccia di Oristano, il Moscato Bianco pugliese e quello di Noto, Lo Zibibbo secco siciliano. In tanti sognano di visitare o di tornare a visitare le Cinque Terre, ma chi è che sa orizzontarsi enologicamente fra i Colli di Luni, il Golfo del Tigullio, il Levante e il Ponente? E poi c’è il Carso con tutti quei nomi di vini e produttori contenenti “K, J, Ic, Ich”, un po’ di qua e un po’ di là dal confine storico, ma non geografico.
Riprendo fiato.
Uno dei miei attuali interlocutori riguardo a questioni vinose è un brillante esponente della New Wine Generation, un maschio Alpha & Beta privo di costruzioni mentali del tipo “Rosso vince su Bianco che però piace più alle donne”. Non siamo d’accordo su quasi niente a parte la sostanza della materia enoica in sé, qualsiasi colore le appartenga.
Recentemente A&B mi ha scritto “I bianchi italiani sono il delirio”.
E che dire di un altro maschio coGnoscente, mio coetaneo e per questo meritorio di Alpha, Beta, Gamma, Delta e via almeno fino alla Lambda. Costui di recente ha elencato in un bel post corposo i limiti e le colpe dei vini bianchi italiani, i cui due principali sono: troppo precoci quando si presentano sul mercato e troppo simili fra loro. Non posso che essere d’accordo.
Ricapitolando: i bianchi italiani confondono per i nomi complicati, si muovono scompostamente per le vie della comunicazione contemporanea oppure rimangono immobili, sono omologati nel gusto, vengono bevuti quasi sempre al momento sbagliato con la temperatura sbagliata, non sono flessibili negli abbinamenti come i rossi fratelli maggiori, costano troppo rispetto a concorrenti stranieri.
Eppure, eppure, se c’è un orizzonte a cui guardare, se si desidera respirare aria nuova e non fritta, se si auspica non solo esperienza ma anche intraprendenza bisogna cominciare a occuparsi più seriamente della produzione bianchista italiana.
Una produzione così composita e promettente che merita la serie A, il podio e la dignità finora quasi del tutto negata.
Perché l’Italia è ANCHE un territorio ideale per i vini bianchi [ho scritto “territorio”? sì, l’ho scritto].
*Marta Valpiani, Madonna dei Fiori – Romagna Albana Secco 2018 – vol. 13,5 %
**Ciro Picariello, Fiano di Avellino 2019 – vol. 13,5%
***Francesco Cantori, Origini – Verdicchio dei Castelli di Jesi 2019 – vol. 13,5%
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