di Raffaella Guidi Federzoni
Le letture domenicali sono più lente di quelle durante la settimana lavorativa. Lo sanno bene i giornali anglosassoni che per il fine settimana sfornano un set di lenzuola inchiostrate in cui c’è tutto: moda, giardinaggio, sport, spettacolo, business, cultura, gastronomia. Il mio preferito è il Financial Times Weekend. Il peso e gli inserti sono inferiori a quelli dei concorrenti, ma il contenuto è senz’altro corposo, con molti articoli di assoluta qualità. Circa una volta al mese viene aggiunto un “magazine” dal titolo illuminante “How to spend it” , che forse per il 99,9% dei comuni mortali sarebbe meglio chiamare “How to waste it”. Si tratta infatti di una pubblicazione indirizzata a quel 0,1% che non sa che farsene dei soldi, avendone in copiosa abbondanza. A differenza del resto del giornale in questo supplemento si parla di cose inutili, ma essendo correlato da bellissime fotografie pubblicitarie e da testi scritti comunque in modo scorrevole, ha un grandissimo successo in tutte le lobby dei grandi alberghi o nei club privati in giro per il mondo. Confesso di sfogliarlo per primo, sperando di distrarmi adocchiando quello che non potrei mai permettermi ma che fa tendenza fra i nuovi e vecchi ricchi dei cinque continenti.
Mi serve anche per farmi un’idea di come l’Italia è posizionata nell’immaginario globale, dal punto di vista beni di lusso e qualità della vita. Ed è proprio questo che mi ha convinto a scriverne qui nell’arena alterata.
Il Made in Italy in generale tira sempre, per la moda, i gioielli, il design, le Ferrari e Lamborghini, il patrimonio artistico e paesaggistico. Quello che proprio deprime è invece vedere come viene considerato il vino italiano. Per esempio, nell’ultimo numero c’è un articolo di diverse pagine dedicato al Naples Winter Wine Festival, che ospita la più ricca asta di beneficenza degli USA. L’anno scorso ha raccolto più di 100 milioni di dollari, quest’anno la cifra è stata superata. Chi di noi qui in Italia l’ha mai sentito nominare? Di sicuro almeno Gaia Gaja – definita nell’articolo membro della Famiglia Reale italiana del vino – e Giovanni Manetti di Fontodi – neanche nominato nel pezzo – unici italiani presenti. Naturalmente l’autore si è dilungato su tanti altri produttori, in particolare su Sua Altezza Reale il Principe del Lussemburgo, la cui famiglia è proprietaria di Château Haut Brion e Château La Mission Haut Brion.
Continuando nella vana ricerca di almeno una misera citazione del vino italiano in altre pagine , trovo solo un fuggevole Tignanello scritto in caratteri minuti e ironicamente confuso con Tempranillo. C’è poco da fare, gli inglesi in quanto a ironia non li batte nessuno. Finalmente, ciliegina sulla torta della disillusione, nell’ultima pagina la frase “Il vino toscano è superbo, e non parlo del chianti (scritto minuscolo). Penso che il Bolgheri Sassicaia (maiuscolo) sia il miglior vino del mondo.” Riferita a Angelo Galasso, sarto maschile di alta gamma, toscano che com’è facilmente deducibile visto che quota un simbolo di wine “ Tuscan Style”.
Inutile nasconderselo, per la classe dominante mondiale, e anche buona parte della classe media benestante, il vino italiano è fermo ai soliti nomi. Se i resort toscani ancora affascinano, le vigne e i vini della penisola sono considerate un’eccentricità, uno sfizio da levarsi una tantum. Giocando sempre però sul sicuro, senza alcuna curiosità per quanto c’è di nuovo o semi-nuovo.
Se sono depressa la colpa è mia. Invece di affannarmi a trovare segnali di riconoscimento, o quanto meno di aggiornamento, su una rivista inutile e non di settore, che circola in centinaia di migliaia di salotti buoni del mondo, avrei dovuto dedicarmi all’approfondimento leggendo qualche utile blog italiano di settore. Così avrei potuto sentirmi appagata per i complimenti, le notizie rassicuranti, gli aggiornamenti in tempo reale riguardo a quanto siamo bravi e come al di fuori non riescono a capirci.
*Modo di dire che intende: affrontare la realtà senza illusioni.