di Raffaella Guidi Federzoni
Me lo ritrovavo a tavola, una media di 36 domeniche all’anno. Moltiplicato per 18 fa 648. Arrivata alla maggiore età avevo già fatto fuori un migliaio di esemplari, considerando i numerosi extra infrasettimanali. Una volta adulta lo sterminio alimentare non si è fermato: cosce, ali, petti, in giro per i quattro continenti da me battuti. Il pollo è ovunque, più della pizza e degli “spagheddi”.
Ebbene, confesso che tutt’ora mi pongo la domanda che da il titolo al post. Se mi è bastato molto meno per memorizzare sensorialmente il gusto del manzo, dell’agnello e persino del coniglio, quello del pollo mi lascia un vuoto. Non so di che sa.
Forse perché il pollo nudo non se lo mangia nessuno. Qualche erbetta come minimo, salse con tutti i colori dell’arcobaleno, una panatura, limone, bambù, curry, yougurt, alghe. A ripensarci, l’unico gusto certo che ho riguardo alle carni di questo volatile è che può sapere di gomma americana, carta, gesso.
Intravedo qualche commentatore alterato che comincia ad agitarsi sulla seggiola e, vantando ascendenze o conoscenze agricole, pensa a voce alta “è perché non ha mangiato quello del Sor Taldeitali, della mi’nonna, dello zio del cognato di mia suocera”, polli di cui si conoscono i genitori ed antenati, cresciuti liberi di razzolare e nutriti con scarti di fattoria e non pastoni liofilizzati. Tutto vero, ci sono polli dal pedigree autoctono che, arrostiti o in casseruola, riconciliano con l’umanità. Sono però sempre vestiti con qualcosa che caratterizza il gusto finale.
Mi fermo qui e passo al vino.
Ci sono vini, o meglio, vitigni, resi noti solo di recente all’assetato pubblico nazional-popolare sempre avido di novità. Costoro non vanno sottovalutati, sono quelli che sganciano i quattrini per bere ed imparare e bere di nuovo se hanno imparato per bene. Al di fuori del Sangiovese mi considero anche io una dilettante nazional-popolare. Mi interessa moltissimo scoprire e approfondire le caratteristiche di un vino, di una zona, di una denominazione. Riconosco di avere qualche strumento in più dal punto di vista degustativo del bevitore medio, ma non tanto in più.
Per fare un esempio e terminare questa mia oziosa divagazione alterata, penso al Nero d’Avola. Qualche anno fa chiesi ad un nostro collaboratore che lavorava anche in Sicilia, di portarmi un autentico Nero d’Avola in modo da avere un punto di riferimento, una postazione di partenza da cui cominciare. Risultato? Mi portò un vino fatto da lui che non mi piacque tanto e che sapeva principalmente di spremuta di mirtilli. Rifiutandomi di credere che quello fosse il tanto osannato Nero d’Avola, continuai la mia ricerca trovando numerose variazioni dovute alla zona, all’enologo, al produttore. Oramai sono quasi alla fine del percorso, ma è stata dura. Bisogna affrontare il vino nudo, senza troppe coperture.
Continuo comunque sostenuta da una certezza: questo vitigno è molto più attraente di un pollo.