Il Grinta

deserto_sale

di Fabio Rizzari

Seguire la moda non è un problema né un delitto, a patto che si faccia in modo consapevole. Nel campo del vino il percorso degli ultimi due decenni è facile da tracciare. Con tutte le semplificazioni del caso, si è passati da vini che cercavano sempre più ossessivamente di dare sensazioni di pienezza, morbidezza, dolcezza, avvolgenza, a vini che – al contrario – siano molto freschi, molto snelli, molto vivi sul piano dell’acidità e delle componenti sapide (sali, e i famosi lati minerali).

Rileggendo alcune schede di assaggio per la nuova edizione della nostra Guida, che stiamo faticosamente chiudendo, mi ha colpito proprio un piccolo ma evidente rischio di deriva modaiola: pochi testi (ovviamente corretti…) tendevano non soltanto a non valorizzare le doti di souplesse di un dato vino, ma anche quasi a sminuirne l’aspetto dolce del frutto.

Ora vorrei far notare a me stesso, ai miei colleghi e agli appassionati che è bello trovare vini molto saporiti, come scriviamo in Guida “grintosi”, ricchi di acidità e di note saline; a patto che le suddette note siano accompagnate da una buona “controspinta” delle componenti appunto morbide. Un bianco o un rosso che sia solo acidulo e/o salato è poco piacevole per i più e quindi poco raccomandabile.

Ricordo bene certe sessioni di degustazione della fine degli anni 90: se arrivava, faccio per dire, un Carema, veniva spietatamente rubricato come vino “vuoto”, “annacquato”, “spigoloso”, “acido”, “tagliente”, e simili. Oggi, se non si sta attenti e non si rispetta il sacrosanto principio dell’equilibrio nel giudizio critico, si corre il rischio opposto. Arriva sulla tavola, poniamo, un Merlot dell’Italia centrale? È troppo concentrato, troppo colorato, troppo morbido. E poi, pensa poverino, è pure fruttato (orrore). Non vorrei che fra qualche anno ci si ritrovasse tutti, chi più chi meno, a fare un mea culpa ripensando agli eccessi controriformistici di questo periodo: esattamente come succede oggi ripensando a dieci o quindici anni fa. (agosto 2009)

15 commenti to “Il Grinta”

  1. Basterebbe rimanere coerenti con se stessi da sempre; è ovvio che se si faceva la bandieruola al vento prima, la si faccia anche ora; con tutte le problematiche che ne conseguono. Se una guida deve inseguire il presunto gusto delle masse, e non invece imporre un proprio opinabile – per quanto competente – punto di vista, beh allora non ci si può aspettare proprio nient’altro di diverso. :-(

  2. Se “…non si rispetta il sacrosanto principio dell’equilibrio nel giudizio critico…” né quello dell’equilibrio nel calice, siamo al fruttato…

  3. guarda un po’ il caso, mia figlia mi ha appena posto un quesito di geometria a cui non ho saputo dare risposta: quanti lati ha il minerale?

  4. Ci sono vini che non capivo 20 anni fa e mi domandavo il perchè di tanta concentrazione, ci sono vini che non capisco oggi e mi domando il perchè di altrettanta essenzialità. Parafrasando Fabio direi che sarebbero opportune un paio di cose: salvaguardare il ” sacrosanto prinipio dell’equilibrio del vino” e il “sacrosanto principio del genius loci”. Sia “aggiungere” che “sottrarre” non mi sembra vada in questa direzione

  5. A me pare che questa volta il topolino abbia partorito la montagna:

    “Un [vino] che sia [così e cosà] è poco piacevole per i più e quindi poco raccomandabile.”

    Passaggio che suggerisce attenta riflessione e ampia discussione su quale sia il compito di una guida.

    Se ai consumatori dovesse venire in grado bere il vino alla Tomacelli, quello mischiato con altre cose più o meno sprizzose, la buona guida dovrebbe preoccuparsi di raccomandare e premiare i vini più sprizzabili?

    Altro punto tutt’altro che minore e scontato: come fa il curatore di una guida a capire quale sia il [così e cosà] che piace in un certo periodo ai più?

    • se il curatore facesse così trasformerebbe la guida in un indicatore di tendenze enologiche. comprendo la necessita di questa attività per destare attenzione nei curiosi che trovano premiato un vimo dal nome impronunciabile (magari con quota parte dei cosiddetti vitigni peggio, pardon, migliorativi) con cui riempirsi la bocca dandosi le arie dell’intenditore; un ottimo incentivo ad acquistare la guida. Ciononostante, salvo qualche eccezione, resto del parere che una guida debba avere il compito di indicare i “padri nobili” della produzione italiana con una sezione a parte, come a dire: “questi qui giocano un campionato a parte con punteggie gusti non paragonabili agli altri, un passo indietro stanno le eccellenze del momento che potranno entrare nella hall of fame dopo anni di prestazioni coerenti con se stessi e sempre ad altissimi livelli”. In fondo per 14 anni il Sassicaia è stato considerato un vino da tavola degno di un certo interesse fino alla deflagrante esplosione del 1982…

  6. Non potrei essere più radicalmente in disaccordo di quanto sono con l’idea del museo delle cere proposta da Francesco Fabbretti. Piuttosto il borsino sprizzometrico tutta la vita… :-DDD

    • Grazie a Dio non mi occupo di guide perchè, diversamente, non mi sognerei nemmeno di recensire un produttore nato dopo il 1968 o prima del 2000…. quello che c’è stato in mezzo grida vendetta davanti a Dio e al mondo, e se c’è una cosa che mi rammarica è che anche io, per tendenza, ho preso tante di quelle cantonate atteggiandomi a spuzzettoso connoiseur sempre aggiornato sull’ultima tendenza per accettare solo di recente la filosofia “solo vino niente trucchi”…. quella che mio zio, Fattore marchigiano e conferitore di vino (non uve) a una cantina di cui non faccio nome, mi ha sempre insegnato nonostante fossi un “munello” di appena 8/9 anni.
      In fondo le due visioni caro Rossano non devono per forza confliggere: per me il vino è come un vestito: alla napoletana, Principe di galles, tweed, velluto a coste, doppiopetto. Non andranno mai di moda nè passeranno di moda; sono fuori dalla moda. Altri cambiano e scelgono il trendy per indossare un’immagine che nel suo essere “alternativa” finisce per costituir stereotipo in sé. In entrambi i casi l’avventore ha dei danari da spendere e, in ultima analisi, sceglie come spenderli e in cosa identificarsi.

  7. A me sta benissimo che uno decida come vestirsi una volta per tutte, aderendo ad un’idea di classico (quello che prescinde dalle mode si chiama classico) solidamente affermata nella società (del suo tempo si intende…).

    Meno l’idea che quell’estetica sia l’unica davvero capace di esprimere la vera eleganza, degna di una considerazione diversa di fronte a tutti e a chiunque, tanto che sarebbe doveroso assegnargli una categoria a parte.

    Anche perché, venendo ai famosi mostri sacri a cui pensi tu, che sono a spanne quelli a cui penso anche io, di ciofeche o vini criticabili ogni tanto ne cacciano, eccome. E ogni tanto qualcuno di essi esce dal vero gotha del vino, per una generazione o definitivamente. A causa del fatto che quelli che la pensano come te sono molti, collettivamente ci si rende conto di quello che è successo con al minimo dieci anni di ritardo. Come ci si accorge con almeno dieci anni di ritardo che nel gotha merita di starci, uno ogni lustro, un produttore che prima stava in una categoria inferiore.

    Ripeto, anche se i miei vini del cuore sono a spanne gli stessi tuoi, piuttosto che il tuo approccio preferisco la lettura della moda dura e pura, sprizzosità comprese.

  8. Argomento molto attuale
    Come é vostro uso e costume senza ditino alzato e senza offese personali
    Anche io ho l’impressione che certe volte (spesso) a forza di eleganza terroir bevibilitá e cosî via sotto sotto incomincia a mancare qualcosa forse chiamata sostanza o materia

    • Questo è uno dei punti centrali. In una delle ultime visite ad Angelus, il proprietario ironizzava sulla “finesse” dei vinelli meno strutturati: “la finezza non è quella di un vino trasparente come il vetro della mia finestra”. E infatti noi facciamo una bella differenza, una differenza capitale, tra vino longilineo e slanciato ma non diluito e vino leggero e scorrevole perché vuoto. Nel blog espressico ho ribadito il concetto fino alla stucchevolezza più fastidiosa. Per esempio:

      “Come ripete implacabilmente a ogni visita a Margaux Paul Pontallier, uno dei più famosi enologi francesi: un rosso può essere anche molto ricco, molto estrattivo, molto denso, la chiave è che abbia souplesse e soprattutto un finale dai tannini “raffraichissantes”, rinfrescanti, e non brucianti, per aver voglia di un nuovo sorso.

      Qui non si propone certo di chiudere in una camicia di forza astratta ogni
      e qualunque vino di ogni e qualunque area produttiva: ciascun territorio ha il suo carattere e la sua voce, ecc ecc. Men che meno ci si sogna di chiedere a un produttore di Carema di fare un similBordeaux, o di dare morbidezza posticcia a vini che nascono austeri; sennò saremmo da capo a dodici. La nozione di equilibrio, centrale, è ovviamente relativa alla singola tipologia, e non si può meccanicamente trasporre lo schema ideale di un rosso x in un rosso y.
      Si tratta invece di tenere ben desta l’attenzione critica, per evitare di essere passivamente influenzati dall’aria che tira.”

  9. Io mi occupo principalmente di champagne, ed é il vino che bevo e degusto professionalmente più spesso. Quando si affronta una tipologia di vino così segnata nella sua tipicità da acidità e mineralità, si può, più spesso che con altri territori, sbagliare il punto di vista. Il piacere della lunghezza acida che rinfresca la bocca, la mineralità e la sensazione salina che ti lasciano la voglia di bere ancora, possono sviare un giudizio disattento, bisogna concentrarsi nella ricerca dell’equilibrio. Sento,e leggo, spesso valutare nel mondo delle bollicine la durezza come freschezza, il corpo come pesantezza e mi vengono immediatamente in mente le donne troppo magre che girano per la mia città, le clavicole vistose sotto la pelle lucida e tirata, i gomiti spigolosi, le anche sporgenti, le coscie della stessa circonferenza dei polpacci. Un’essenzialità fatta per rendere bello il vestito, vini buoni da bere con superficialità. E poi per finire per lo champagne come per le donne, senza un po’ ciccia le rughe vengono prima si vedono di più.

  10. Ho letto in religioso e accademico silenzio tutti i commenti, pertinenti al punto giusto.
    Ho gioito alteratamente dopo la lettura dell’ultimo. Sempre centrato, maschile quanto basta. Fabrizio Pagliardi, lo Champagne non è fra le mie priorità vinose, ma una bottiglia con te la dividerei volentieri.

    Tornando all’argomento del post, seguire la moda non è un delitto, ma diventa un problema soprattutto se si fa in modo consapevole. Un degustatore esperto non segue le mode, ma l’evoluzione del vino. Sia che si tratti di una singola azienda, sia che scriva di una zona, o denominazione, o vitigno.
    Questo secondo me segna la differenza fra chi degusta e scrive in modo superficiale e dilettantistico e chi invece si adopra in modo professionale.
    Certamente il nostro stesso gusto negli ultimi dieci, venti, trenta anni è mutato. Siamo più vecchi, più scafati, più (dis)informati. Sta a chi fa del proprio palato un strumento di analisi e sintesi, riuscire a distaccarsi seppure parzialmente dal proprio gusto personale per fornire una descrizione equilibrata. Al di là dell’ondata modaiola che oggi è in un modo e domani in un altro.
    Noi che ancora insistiamo a comprare e leggere certe guide, proprio perché le consideriamo più affidabili di tanti passa parola da blogghe, questo vogliamo. Altrimenti che ce state a fa’?

    • “Un degustatore esperto non segue le mode, ma l’evoluzione del vino. Sia che si tratti di una singola azienda, sia che scriva di una zona, o denominazione, o vitigno.
      Questo secondo me segna la differenza fra chi degusta e scrive in modo superficiale e dilettantistico e chi invece si adopra in modo professionale.”

      Bra-va.

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