di Raffaella Guidi Federzoni
Natale è una festività cristiana, lo scrivo subito per evitare perdite di tempo a lettori laicamente scettici e politicamente corretti. Una ricorrenza astuta che ricorre ogni anno subito dopo il solstizio invernale, e muta la celebrazione pagana del graduale passaggio dalle tenebre alla luce in una affermazione religiosa in cui il divino si incarna nell’umano. Tutto ciò avviene senza pompa né dispiegamento di eserciti, ma solo grazie al naturale nascere di un neonato.
Se questa è una favola, è la favola più bella che io conosca.
Se abbiamo ancora un barlume di spontaneità, innocenza e speranza, possiamo sperare di vivere il Natale non solo come magnata e delirio consumistico.
Se non siamo schiacciati da cattive notizie e brutte vicende personali, in questa parte di mondo tutto sommato ancora benestante, possiamo permetterci quel tanto di allegria generosa che appartiene agli uomini e donne di buona volontà.
Possiamo avere un momento di silenzio interiore, prima di spacchettare regali.
Possiamo ricordare.
Il mio primo Natale fuori casa fu a Parigi, era il 1977 e avevo diciannove anni. Mi ricordo la migliore Messa di mezzanotte in assoluto, migliore perché celebrata alle nove e mezzo di sera. Mi ricordo tre o quattro famiglie comprendenti tre generazioni, mi ricordo le prime bottiglie di Borgogna mai bevute. A casa mia il vino del Natale era il Lambrusco, sempre e comunque. Quel vino francese segnò una svolta definitiva per il mio palato. Altro non ricordo, se non che non ebbi tempo di soffrire di nostalgia. Presto sarei tornata a casa e casa era solo a poche ore di treno.
Il mio secondo Natale fuori casa fu a Wellesley, Massachussets, era il 1978 e avevo venti anni. Partii da Roma il 24 dicembre. Il volo era TWA. All’aeroporto mi portarono mio fratello e mia sorella perché papà e la mamma non avevano avuto la forza di accompagnarmi. Mia sorella mi salutò al controllo passaporti e scoppiò a piangere. Quella che andava sempre via stava partendo di nuovo. In aereo le hostess si misero il cappello di Babbo Natale e distribuirono regalini cantando.
Allora per entrare negli Stati Uniti non solo c’era bisogno di un visto, ma all’arrivo ti facevano un terzo grado con tanto di interprete, anche la vigilia di Natale. Sopravvissuta all’interrogatorio, trovai la famiglia ospitante che mi aspettava con ansia. Finalmente era arrivata la ragazza alla pari.
La famiglia ospitante era gentile e piuttosto strampalata, ma atea e fieramente contraria a qualsiasi superstizione – qualche anno più tardi il loro bambino dovette subire una difficilissima operazione a cuore aperto e in seguito confessò alla madre che, non sapendo chi pregare, aveva invocato gli Dei dell’Olimpo appena studiati a scuola -.
Non solo i genitori non credevano neanche all’acqua calda, purtroppo non erano nemmeno inclini al consumo abituale di bevande alcoliche. Quello fu il mio primo ed ultimo Natale senza una goccia di vino.
La mattina riuscii ad andare a Messa, non capii assolutamente nulla, ma conoscevo la funzione a memoria e fare la comunione mi scaldò il cuore. Nei successivi otto mesi non misi più piede in una chiesa. Sarebbero passati più di venti anni prima di tornare ad ascoltare una messa americana.
Del pranzo di Natale ricordo solo un pane cinese molto particolare ed il viso del mio dirimpettaio a tavola, un giovane cugino dottorando al famoso MIT di Boston. Lo guardai e pensai che mi ci sarei potuta brevemente fidanzare.
Così fu.
Era la fine del 1978, fra poco sarebbe arrivato gennaio 1979, avrei compiuto ventuno anni, avrei vissuto il mio primo inverno americano ed imparato il sentimento feroce di essere lontano da casa.
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