L’Abruzzo è terra di passaggio

All'ombra delle viti 1950

di Francesco “Falco” Falcone

Ci transitano in tanti ma in pochi si fermano. Perciò è così misteriosa: bella, ricca di suggestioni, ma parecchio sconosciuta. Ed è per le stesse ragioni che sa essere anche sorprendente: come una perla preziosa, rara, nascosta nel guscio del Paese.

Posta alla congiunzione tra nord e sud d’Italia, tra mare e ghiacciai, tra sviluppo e arretratezza, tra modernità e tradizione, è regione del Centro solo geograficamente, perché la sua storia, la sua architettura, la sua gente rappresentano la porta d’ingresso orientale verso il nostro Meridione.

Stessa polarità si ritrova nei vini locali, che al meglio sono un goloso impasto di luce e terra, di calore e freschezza. Esistono luoghi dove si producono liquidi luminosi o terrosi, floreali o viscerali, fini o ruvidi, generosi o sobri, poche volte capita che questi elementi si ritrovino mescolati in modo armonico.

Accade sovente, invece, assaggiando quelli abruzzesi. In essi si percepisce una trama fibrosa che è propria di tutti i vini dell’Italia Centrale, con in più una stoffa alcolica di radice sudista e un bonus di vitalità, di tensione, di purezza che rimanda a una produzione di matrice nordica. Risorse rare che urge raccomandare agli appassionati.

Prerogative che palpitano anche nei vini meno ambiziosi, perfino laddove la gestione agricola ed enologica è deficitaria, tanta è la forza di questa terra e dei suoi vitigni (montepulciano e trebbiano su tutti, senza dimenticare il pecorino).

Ma è nelle mani più ispirate che il talento regionale si traduce in bianchi, rosati e rossi realmente completi, tanto buoni quanto economici, in grado di ben figurare sia in gioventù, sia alla prova del tempo. E, anzi, soprattutto alla prova del tempo.

In tal senso, può rappresentare un’esperienza formidabile, folgorante, l’assaggio di qualche vecchia bottiglia dell’azienda Valentini di Loreto Aprutino, nome ormai leggendario per i grandi amatori di tutto il mondo, e sulla cui storia già molto è stato detto e scritto. Noi ci limiteremo a segnalare lo splendore di due impressionanti interpretazioni testate di recente: vini contadini nella forma (con qualche sgrammaticatura che anziché penalizzare la beva ne amplifica il carattere) e nobili nella sostanza (una nobiltà fiera, salda, mai dimostrativa). Bottiglie che vanno considerate senza riserve tra le più grandi che l’Italia abbia mai prodotto nelle rispettive tipologie: Montepulciano d’Abruzzo 1995 e Trebbiano d’Abruzzo 1977.

Il primo è un rosso che mette miracolosamente insieme Bordeaux, Borgogna e Rodano Settentrionale: le analogie olfattive sbalordiscono per intensità e complessità (dal caffè tostato alla roccia spaccata, dal sangue al sottobosco, dal cacao alla macchia) e in bocca la sua potenza e i suoi vent’anni trovano il contrappunto di una carbonica appena percettibile (frutto di una parziale fermentazione malolattica svolta dopo l’imbottigliamento) e di un’energia talmente vitale da lasciare presagire un’evoluzione ancora molto lunga.

Il secondo è, per chi scrive, il miglior bianco italiano mai assaggiato, nessun dubbio a proposito. Il bouquet pare creato da un artista in stato di grazia, folle e lucido insieme, e grazie al ruolo dell’ossigeno (che nei vini di Valentini è determinante) si trasforma di minuto in minuto, di ora in ora, di giorno in giorno, portando a galla un ventaglio di sensazioni che è impossibile raccontare senza cadere nell’enfasi più trionfale. E lascia di stucco anche il sorso, di bontà travolgente, epico nella sua giovanile succosità ma pure denso di sapori e di aromi, quasi terpenico, rifinito da una stupefacente persistenza.

Due vini figli della perfetta sinergia tra uomini, territorio e tempo, un elogio della lentezza e dell’amore per le cose autentiche.

Un’esperienza che si riassume in una parola: emozione.

 

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