In questo mondo c’è posto per un solo nuovo Bob Dylan

Dylan

di Francesco Beghi

Sarebbe troppo facile dare tutta la colpa di quel che è successo al celebre critico musicale americano Paul Nelson. Non c’è nessuna colpa in questa storia. Le cose vanno come vanno. Anche questo, in fondo, è rock’n’roll.

In realtà, nel 1973 non si sentiva alcun bisogno di un nuovo Bob Dylan. Quello originale aveva solo 32 anni, aveva già all’attivo una dozzina di album (per inciso: continua imperterrito a procrearli, siamo intorno ai 35 come solista, senza contare innumerevoli partecipazioni, live, raccolte, progetti alternativi eccetera) e aveva appena inciso la colonna sonora di Pat Garret & Billy the Kid con incorporata Knockin’ on Heaven’s Door, talmente immortale da resistere al tempo, alle intemperie e al tentativo di assassinio da parte di quel somaro di Axl Rose.

Ma non divaghiamo. Se Bob Dylan come nuovo Woody Guthrie non aveva avuto rivali fin da subito, al punto che dopo la svolta elettrica del ’65 non pochi dei fan della prima ora lo avrebbero volentieri impeciato e impiumato come d’uso da quelle parti, la ricerca del nuovo Dylan si presentava un po’ più complicata. I papabili sono sempre stati molti, e non certo per loro volontà, al punto che uno di loro – più avanti dirò quale – propose scherzosamente di fondare il Club dei Nuovi Dylan. All’epoca i critici musicali a corto di argomenti ma con l’etichettatrice nella cintola puntavano soprattutto su Loudon Wainwright III e John Prine, più tardi la maledizione toccò a Steve Forbert. Marco Denti ha dedicato a tutti loro il libro Alias Bob Dylan. L’odissea dei nuovi Dylan, Selene Editore.

Torniamo però al 1973. Il 5 gennaio esce negli Usa Greetings From Asbury Park, N.J., il primo album di Bruce Springsteen. 25mila copie vendute nonostante il gadget della copertina con cartolina apribile (i mitici LP degli anni 70 – si pensi a Sticky Fingers degli Stones, copertina disegnata da Andy Warhol con la cerniera dei jeans apribile, tutti costosi ammennicoli scomparsi nelle ristampe successive e, ovviamente, nelle versioni in CD) e un tiepido riscontro di critica. Siamo del resto nel pieno della seconda British Invasion e le classifiche americane sono dominate da album come Quadrophenia (The Who), The Dark Side of the Moon (Pink Floyd), Houses of the Holy (Led Zeppelin), Selling England by the Pound (Genesis), Goodbye Yellow Brick Road (Elton John), tutti usciti lo stesso anno; si affermano linguaggi musicali come reggae e funk; scalano le chart Stevie Wonder, Herbie Hancock, Bob Marley & The Wailers. Il ventiquattrenne Springsteen si è già costruito una solida fama di performer nei locali del Jersey Shore ma non è certo sufficiente per emergere nel settore discografico e farsi conoscere lontano da New York e dintorni.

Tra settembre e novembre dello stesso anno, a due mesi l’uno dall’altro, escono per la Polygram Aquashow, disco di esordio del cantautore newyorchese Elliot Murphy, e The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, secondo LP di Bruce Springsteen nove mesi dopo il primo, con la maledizione della Columbia per la cervellotica scelta dei titoli da parte dell’allora barbuto chitarrista del New Jersey. E qui entra in scena Paul Nelson. I due sono entrambi classe ’49, suonano chitarra e armonica, bazzicano i club di New York proprio come faceva Bob Dylan dieci anni prima – è un attimo ed esce la recensione contemporanea dei due dischi sulla rivista Rolling Stone con il tag comune “New-Dylan” (perché gli americani il tag l’hanno mica scoperto con i social network). Di più: Aquashow viene bollato come “Il miglior Dylan dal ’68” e l’armonica del pezzo di apertura Last Of The Rock Starsla migliore mai sentita dopo Dylan”.

In generale, le recensioni per Aquashow furono migliori. Per esempio, Robert Christgau su Creem scrisse, circa le canzoni dell’album di Springsteen: “nel complesso non sono coerenti fra loro” assegnando, con un tipico sistema di punteggio americano, un anonimo B+. Scarse le vendite per entrambi, e se l’accostamento a Dylan per Elliott Murphy poteva avere un senso, quello con Springsteen era decisamente forzato, data la sesquipedale differenza di stile (The E Street Shuffle è il pezzo di apertura di questo album). Fu la fortuna di Springsteen e fu proprio lui, scherzando, dopo aver letto le recensioni, a proporre di fondare il Club dei Nuovi Dylan. Mentre Elliott Murphy, che all’epoca era molto più attratto da David Bowie, Velvet Underground e New York Dolls, non la prese troppo bene.

L’anno successivo entrambi lo dedicarono a scrivere canzoni, a consolidare il repertorio e soprattutto a guadagnarsi da vivere strappando contratti per il maggior numero possibile di esibizioni live. Proprio durante una di queste il critico musicale Jon Landau rimase talmente folgorato da scrivere la celebre frase “Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen”, per poi diventarne il produttore e rendersi artefice in prima persona della sua profezia. Fu infatti il 1975 l’anno decisivo che marcò in modo indelebile i destini dei due, divaricando due carriere fin lì praticamente parallele.

La verità, se verità esiste, è che il passaggio dal rassicurante mondo della propria band e dei propri fan a quello spietato dell’ambiente discografico, della produzione e della critica musicale mise in chiaro le differenze caratteriali dei due personaggi. Anzi, delle due persone. Là dove Springsteen andò avanti come un treno con le sue convinzioni, imponendo la sua volontà e la sua determinazione – e pagandone anche il prezzo, come ebbe a raccontare in seguito – Murphy si fece prendere da dubbi e incertezze, cambiò casa discografica – dalla Polygram alla RCA – e uscì con il secondo disco Lost Generation suonato da session men di Los Angeles. Testi raffinati, tante citazioni letterarie e cinematografiche, ma suono impersonale, asettico, già prospettato si potrebbe dire da una copertina francamente orrenda. Negli stessi mesi, Bruce Springsteen, sempre più indissolubilmente legato alla E-Street Band ora in formazione definitiva, pubblicò l’album Born To Run che lo catapultò in testa alle classifiche e lo rese famoso in quasi tutti gli Stati Uniti mentre il suo nome cominciava a giungere anche agli appassionati europei, e poi avanti in una scalata inarrestabile fino al successo planetario di Born in the USA (1984).

Elliott Murphy? Dopo l’interlocutorio Night Lights del 1976, il tentativo di lanciarlo in orbita nel 1977 con la pomposa produzione di Just A Story From America, farcito di sviolinate, arrangiamenti orchestrali, cori, retorica e tutto ciò che non dovrebbe esserci in un album rock fallì miseramente.

Adesso, a 66 anni, Elliott Murphy, da sempre più apprezzato in Europa che in America, continua a fare musica, scrive libri, vive a Parigi da molti anni e tiene concerti per cinquecento persone. Bruce Springsteen è… beh, è Bruce Springsteen. Forse, The Last Of The Rock Stars, come intitolava Elliott Murphy nella prima canzone del suo primo disco, è proprio lui. Io li amo entrambi. E amo naturalmente Bob Dylan, l’unico, originale e inimitabile.

2 commenti to “In questo mondo c’è posto per un solo nuovo Bob Dylan”

  1. Grazie per avermi fatto ricordare di Elliott Murphy, che il tempo aveva rimosso, nonostante lo abbia apprezzato agli albori.
    Premetto il mio amore per un buon 70% della produzione del boss, e se il termometro fosse appena il sucesso, l’erede sarebbe innegabilmente lui.
    Nonostante ciò, c’è un tipo che come successo sta a metà strada e oltretutto soffre l’handicap teorico di non essere a stelle e a strisce, il quale a mio parere raccoglie in modo molto più fedele l’eredità di Bob Dylan, mi riferisco ad eclettismo, capacità creativa, carisma a tutto tondo, personalità: Nick Cave.
    Sono solito affratellarli nella mia personale santissima trinità del rock assieme ad un altro tipo di quelli che non sbagliano quasi mai un colpo: Dylan, Cave e Neil Young, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
    Saluti e complimenti,

    • Carissimo Zucco,
      se parla di Neil Young con me sfonda ottomila porte aperte. Più che altro, vista l’età e le bizzarrie, lo considero una sorta di fratello scapestrato. L’anno scorso, a Barolo, vederlo con i Crazy Horse, sotto il diluvio e il fango, è stato una sorta di amplesso.
      Nick Cave, certo: l’erede cavernoso, sta scritto nel nome. Un pazzo creativo. Ma, come stile, ci allontaniamo sempre più. E allora le butto lì un altro nome, che guarda caso ha esordito pure lui nel 1973: Tom Waits.

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