di François Begüy
Nell’enorme sala rettangolare dello storico Château pareva avvertirsi aleggiare nell’aria appena palpabile il profumo dell’incenso. Dai finestroni alti fino al soffitto giungevano obliqui raggi di sole nascente filtrati da pesanti drappeggi color ocra. Controluce, nella penombra, si intuivano austeri arredamenti carichi di passato.
Verso il lato lungo della sala opposto alle finestre, dieci tavoli perfettamente allineati, coperti da candide tovaglie di Fiandra. Sopra ciascun tavolo, in fila, a dieci centimetri l’una dall’altra, dieci bottiglie aperte. Davanti a ciascuna bottiglia, il rispettivo tappo di sughero e un calice Riedel Burgundy Grand Cru. Sopra ogni tavolo, una potente luce fredda posizionata per l’occasione. Dietro ogni tavolo, dalla parte opposta a quella dei calici, un sommelier della Sommellerie de France in divisa ufficiale, immobile.
Con la giacca pesante, perché in tutta la gigantesca sala dagli alti soffitti spioventi con travature in rovere era stata fatta raggiungere la temperatura esatta di diciotto gradi centigradi con il 60% di umidità. C’era voluto un mese e il lavoro di dieci esperti in climatizzazione ambientale. Da un mese le cento bottiglie erano lì, ad acclimatarsi. Alle 5 del mattino erano state aperte.
Sembrava che si stesse per assistere all’inizio di una cerimonia solenne.
Infatti era proprio così.
Cento annate del Premier Cru Barbe-le-Charles, tutte le cento annate del ventesimo secolo. Dal 1900 al 1999. Nessuna vendemmia saltata. Nemmeno durante le due guerre mondiali. Nemmeno nel corso dell’occupazione nazista. Si narra che nel 1943 l’allora già settantottenne Madame Raphaëlle Guidon-Federçon de la Villette, erede della dinastia famigliare che ha sempre retto le sorti dello Château, al giovane ufficiale delle SS Begg che voleva impedirle di inviare i contadini in campagna a raccogliere le uve rispose senza neppure una parola ma con un sonoro schiaffone proprio nel piazzale davanti allo Château.
Fatto che fece sogghignare tanto i soldati tedeschi quanto i contadini francesi. La vendemmia iniziò e il vino fu prodotto regolarmente, anche se in buona parte tracannato direttamente dalle botti dai soldati tedeschi prima ancora dell’imbottigliamento.
La grande pendola del salone scandì otto lenti rintocchi. L’antico parquet scricchiolò sotto i piedi del sommelier al quarto tavolo, quello assegnato alle annate dal ’30 al ’39. L’unico che si era mosso, tradito dal nervosismo.
Infine, la pesante porta di quercia che dava accesso al salone si aprì con un cigolio appena accennato e un tonfo attutito di fine corsa. Il salone si riempì in un istante della figura del più grande degustatore della storia d’ogni tempo, accompagnata dal suo ipertrofico ego e da Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette, nipote della nonna del celebre schiaffo.
La porta si richiuse. Armand de Marron avanzò lentamente facendo gemere il parquet. Voltò la testa e sembrò voltarla di centottanta gradi come un enorme gufo. Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette riaprì la porta di quercia e si smaterializzò.
Da quel momento Armand de Marron rimase solo nel salone con i dieci sommelier, con la sua Moleskine nera e con la sua stilografica Caran d’Ache Ecridor.
Annusò a fondo l’aria per essere certo che non vi fossero odori estranei, poi cominciò a degustare metodicamente, a partire dall’annata 1900, senza dire una parola, avanzando adagio lungo i tavoli, portandosi i calici al naso, sorseggiando il liquido contenuto in ciascuno di essi, facendolo roteare in bocca a lungo per poi sputarlo nell’apposito crachoir di acciaio brunito e prendendo appunti sulla Moleskine con calligrafia minuta e precisa.
Solo quando giunse al millesimo ’56, circa tre ore dopo, esclamo: “Bouchonné!”.
Lesto il sommelier del sesto tavolo si abbassò e provvide a sostituire la bottiglia con quella di scorta già predisposta. Sostituì anche il calice, e versò nuovamente il vino. Armand de Marron lo fece roteare con ampi gesti plateali per fargli prendere aria prima di assaggiarlo.
Erano quasi le ore 14 di quella fresca giornata di settembre quando Armand de Marron infilò nella tasca della giacca la Moleskine e la Caran d’Ache, fece marcia indietro, ripassò davanti a tutti i dieci tavoli, a tutte le cento bottiglie, aprì la porta di quercia che nuovamente, come sempre, cigolò appena e, non trovando nessuno nell’atrio, avanzò verso l’uscita.
Nello spiazzo davanti allo Château si potevano riconoscere alcuni dei più influenti critici vinicoli del mondo. Perché se Armand de Marron aveva preteso di degustare da solo, non era certo possibile aprire quelle bottiglie unicamente per lui. Ecco quindi il russo di origine azera Aleksandr Mesnagheth, il belga Fabien Rizzard, l’italiano Roberto Del Parco, l’americano Danny Kernyll, il gallese Ernest Polites.
Armand de Marron uscì dalla porta principale dello Château. Avanzò facendo scricchiolare la ghiaia sotto le sue scarpe di coppale. Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette gli si avvicinò lentamente, facendo volteggiare la gonna carminia ai raggi del sole.
– Bien?
Armand de Marron non mutò la propria espressione severa. Sospirò a lungo, guardando il viale.
– Bien. Très bon.
Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette divenne paonazza in volto.
– Comment voulez-vous dire? Seulement très bon?
– Très bon, oui.
Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette non disse una parola di più. Stette immobile per un attimo. Poi, come fece la sua ava Madame Raphaëlle Guidon-Federçon de la Villette con l’ufficiale tedesco Begg settantadue anni prima, nello stesso identico punto, sferrò un poderoso schiaffo sulla guancia sinistra di Armand de Marron.
I più famosi degustatori del mondo, tutt’intorno, sogghignarono. Armand de Marron, senza aggiungere altro, si avviò verso la sua vettura, una Citroën DS 21 Cabriolet del ’69 color Champagne, la mise in moto e si allontanò lungo il viale di platani che portava allo Château. Madame Raphaëlline Guidon-Federçon de la Villette invitò gli altri critici ad entrare nello Château per procedere con la degustazione mentre alcune nuvole bianche sospinte dai venti di quota andavano a coprire il sole.