di Armando Castagno
“ROMA – Derby Italiano del galoppo, 108° della serie. I partenti sono venti. Le lire molte, moltissime: con le entrate, leggi iscrizioni, fanno un miliardo e trecentottanta milioni. Il favorito è francese: si chiama Beau Sultan”.
Leggo queste righe, a firma Mario Fossati, su La Repubblica che ho appena comprato e sto sfogliando; è domenica 26 maggio 1991, e ridacchio soddisfatto: il favorito è Beau Sultan, della famiglia Head, con in sella una leggenda, Lester Piggott. Proseguo a leggere il grande Fossati e quasi mi eccito: anche il suo secondo favorito è francese: appartiene “al signor Robert Collet. È Fortune’s Wheel, che si concede pericolose deviazioni (con conseguenti distanziamenti o squalifiche) e dovrà essere condotto da Lanfranco Dettori celebre fantino italiano di licenza inglese (figliolo della nostra miglior frusta, Gianfranco Dettori, oggi in sella a Camalal)”.
A destra del giornale, un caffellatte molto scuro; più a destra, a nord del cucchiaino, il pacco dei biscotti, che saccheggio e mollemente inzuppo. Oggi finisce il campionato di serie A, con la Roma che tenta di scavalcare la Lazio in extremis; e questo è il mio grande giorno. Ma il calcio non c’entra e non mi interessa: oggi vinco alle corse. E potrei non vincere poco: non mi piacciono infatti né Beau Sultan né Fortune’s Wheel, nonostante il fantino imbattibile del primo e il nome fatale del secondo.
Il cavallo che mi piace, che giocherò VINCENTE, è un altro; lo giocheranno con me vincente, come da mie indicazioni, più o meno tutti i teneri vecchietti della sala corse di via Francesco Negri, al quartiere Ostiense, il mio quartiere. Da martedì scorso, non ho fatto altro che distribuire loro appunti a penna con il nome del quadrupede, assai difficile da ricordare, sconosciuto in Italia, ma – rullo di tamburi – garantito da me. E chi sei te, potreste chiedermi legittimamente? Ve lo dirò in un orecchio: nessuno. Non per dire: proprio nessuno. Ho 22 anni appena fatti, non me ne rendo conto, ma di galoppo ne capisco il resto di niente, di genealogie men che meno, di ippica internazionale l’ombra di un accidente, ho solo tanta passione; ma i vecchietti tutto questo non lo sanno, si fidano del mio intuito e del fatto che, come un perfetto maniaco, da un paio d’anni intercetto almeno quattro volte a settimana il quotidiano ippico inglese, The Sporting Life, che arriva a Roma presso l’edicola di Via Veneto in UNA copia appena, lo sfoggio brillante in agenzia e – la cosa che li sconcerta maggiormente – lo so leggere.
Non solo leggo gli articoli in inglese, ma interpreto facilmente la complicatissima notazione delle prestazioni dei cavalli: quella che, in gergo, si chiama “la carta”. Quindi, credo pensino, io non RITENGO che Hailsham – in sella il fuoriclasse americano Steve Cauthen, proprietario lo sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, giubba amaranto, maniche bianche, berretto amaranto con stella bianca – vinca il Derby Italiano contro pronostico: io lo SO. Tenete a mente anche voi, come i vecchietti, questo nome: HAILSHAM. Pare arabo, vero? Non lo è: Hailsham è un paesotto del Sussex. L’ho scoperto nel 2015, ventiquattro anni dopo.
Mi sono svegliato tardi, per la verità: sono le dieci e mezzo passate quando intuisco il fondo della tazza del caffellatte. L’ultima sorsata ha il sapore della domenica, appena più dolce del solito. I miei sono partiti ieri sera; siccome non ho una lira che è una, mi hanno lasciato ventimila per le spese del weekend. “Vai fuori per pranzo?” mi ha apostrofato mia madre. “Certo, con i soliti. Una gitarella” ho risposto garrulo. Non è vero: i soldi mi servono per Hailsham. Vincente. Quanti? Tutti. Detratti, va da sé, quelli che mi servono per il biglietto dell’autobus e quello d’ingresso all’ippodromo delle Capannelle. Diciamo dodicimila, a una quota che stimo attorno al cinque contro uno. E coi sessantamila guadagnati, dodici per cinque, altro che pizza, sabato prossimo: si mangia PESCE. E potrei persino invitare fuori Katia, quella carina del civico 28, chissà. Se sto attento ai prezzi, beninteso. Comunque, l’idea che Hailsham NON VINCA, in pratica, non mi sfiora nemmeno.
Doccia meditata, vestiti molto leggeri, tappa in camera da letto dei miei per ritirare i ventimila manco stessi giocando a Monopoli. Nel piccolo bauletto portagioie di mia madre c’è un biglietto di cartamoneta il cui figuro effettivamente mi fissa, ma non è Tiziano Vecellio, ma Alessandro Volta. Sono diecimila lire, non venti. Tiro un pugno contro il trumeau rischiando di fare un puzzle delle mie falangi e impreco. Setaccio la casa: niente. I miei sono irraggiungibili, al mare. Sprofondo in una dolina di tristezza: tra autobus e ingresso alle corse potrebbero restarmi forse duemila lire da giocare. Due per cinque fa dieci. Un’altra facciazza di Alessandro Volta coi capelli riportati come quella che guardo schifato girandomi la banconota tra le mani. Tutto inutile; dovrò accontentarmi della gloria al lunedì pomeriggio in agenzia, delle pacche sulle spalle dei miei vecchietti, e tutto sommato anche di vedere il mio eroe Hailsham dal vivo. C’è di peggio.
E dunque, esco di casa. Arrivo a piedi alla metropolitana, fermata “Piramide”, e con un gesto del tutto inconsulto scavalco a piedi pari i tornelli girevoli di metallo proprio mentre al piano di sotto sento arrivare il convoglio; lo prendo al volo incurante dei richiami dei controllori di stazione che mi rimbalzano sulla schiena. Ho risparmiato mille lire, e cambio treno a Termini ormai in salvo; prendo la metro A verso la fermata “Colli Albani” e ne esco che non è ancora l’una in una controra caldissima, luminosa. Arrotolo le maniche della camicia; ho ancora le diecimila lire in tasca, ma devo evitare di pagare l’autobus se voglio conservarle; penso che ad una eventuale, malaugurata ispezione dei funzionari ATAC racconterò la verità, niente altro che la verità, e per sdebitarmi della loro clemenza consiglierò il cavallo da giocare nel Derby. Il mezzo, linea 664, è fermo al capolinea con le tre porte aperte e senza autista. Salgo. Non c’è nessuno: fa un caldo da serra. Scelgo di sedermi lungo la fila sinistra: un posto solitario, a metà autobus, dal quale in un secondo posso fiondarmi fuori infilando la porta centrale in caso di salita dei controllori.
Prima che il bus si muova, qualcuno si avvicina dietro di me e opta per sedersi, con tutto il mezzo a disposizione, proprio sul posto subito dietro il mio; mi pare di avvertirne il calore. Nemmeno mi giro; e per squadernare con maestria il giornale delle corse attendo che l’autista si accomodi papale sul suo sedile nero, metta le mani sull’enorme volante, prema con soddisfazione i tre pulsanti di chiusura porte e imbocchi l’Appia Nuova verso l’ippodromo delle Capannelle, la mia Mecca.
All’altezza della confluenza sull’Appia di Via dei Cessati Spiriti, accade qualcosa di così inatteso che se chiudo gli occhi, nonostante siano passati tanti anni, sento quasi gli odori del momento, e le sensazioni tattili dei fruscii e del sole sulle gambe, dal finestrino. Accade che la persona dietro di me si schiarisca la gola, mi appoggi una mano sulla spalla destra e abbozzi un roco “Excuse me, Sir” rivelandosi, dal tono di voce, un uomo, un uomo adulto, un uomo adulto straniero. Abbasso il giornale d’istinto e guardo spazientito la maniglia color alluminio e le venature simil legno del sedile di mediocre fòrmica marrone chiaro che ho davanti. “I beg your pardon, Sir” ripete con dolcezza. Dice a me; ne sono sicuro. Non tanto e non solo perché le parole gli sono uscite nella mia direzione, quanto perché sul bus ci siamo lui e io, a parte l’autista.
Mi giro e lo squadro reiterando l’espressione di misantropico fastidio. Quello che mi sta guardando intimorito è un individuo rosso di capelli, gli occhi chiarissimi, avrà 30 o 35 anni, ed è vestito in modo che definire “inadeguato” è eufemistico: sopra camicia e maglione ha addosso una giacca pesante come un plaid, forse di velluto o di tweed, sui toni del rosso acceso. Dalla sua sauna privata mi arrivano altre parole. “I believe you are heading to the Derby, Sir” – e pronuncia “derby” con la “a”: the DA’BY.
“Yes, indeed” rispondo io d’acchito, sperando non voglia sapere altro. “May I dare to ask you if are there irish horses in the DA’BY field?”. Vuol sapere se ci sono cavalli irlandesi nel Derby Italiano; valuto velocemente se dirgli che la sua ricerca è inutile, perché il Derby lo vince Hailsham. Non glielo dico. Apro “Cavalli e Corse” alle prestazioni dei cavalli, sormontate dai dati genealogici. Di cavalli irlandesi non ce ne sono; tuttavia ce n’è uno, soltanto uno, tale Marcus Thorpe, nato negli Stati Uniti, che corre in Italia per la prima volta dopo aver frequentato da comprimario corse di discreto valore in Irlanda. Lo ha appena comprato una scuderia nostrana, la Erasec di Gezio Mazza; nulla di quanto esibito pubblicamente fa credere possa essere un cavallo degno non di vincere, ma di correre un Derby; sembra in pratica contare come il due di coppe.
Informo rapidamente il seccatore irlandese della presenza dell’inutile quadrupede suo connazionale, gli lascio intuire che la presenza di entrambi – lui e il cavallo – in una giornata del genere mi è molesta, torno a girarmi senza sorridere e mi reimmergo nella lettura del giornale lasciando sfumare la sottile inquietudine che il tizio m’ha messo addosso.
Si aprono finalmente le porte dell’autobus davanti allo stupendo scenario dell’ippodromo; l’amico scende dietro di me, mi supera e corre avanti verso i cancelli: manca un quarto d’ora alle due. Io non posso affrettarmi, perché non ho ancora un piano, a meno di cento metri dal luogo del delitto, per aggirare l’iniqua gabella del ticket d’ingresso. Primo tentativo: farò la parte del “trafelato”. Tiro fuori la mia carta d’identità e la sbandiero al tizio che strappa i biglietti, il quale è vestito come i Blues Brothers compresi gli occhiali. Gli bofonchio che devo ritirare un plico dalla sala stampa e gli allungo la carta d’identità come pegno da ritirare all’uscita, cinque minuti. Mi fa cenno di entrare e di sbrigarmi; passa allo spettatore successivo.
Cammino per cinquanta metri e mi fermo: ho il cuore in gola. Sono DENTRO. E non ho speso una lira. Guardo Alessandro Volta: diecimila lire per cinque fa cinquantamila lire. Ghigno. C’è uno stand dello sponsor della giornata, la Mercedes-Benz; distribuiscono, come in Inghilterra, un bell’opuscolo sul Derby Day, con articoli di Rino Icardi, Alberto Giubilo, Piero Mei, Mario Berardelli. Mi dirigo al tondino d’insellaggio, per godermi il sole e la tanta bella gente elegante che all’epoca affollava Capannelle in giornate così; non avevo neppure una vaga idea che quel posto sarebbe stata la mia casa lavorativa quasi quotidiana per oltre due lustri, a partire dall’anno successivo, e che quei cronisti li avrei avuti tutti per maestri: ma quel giorno ero solo uno in mezzo a una folla, che aspettava il suo cavallo, alla cui corsa mancavano ancora quasi tre ore.
La prima corsa, per i puledri, la vince Dirce, della gloriosa Scuderia Cieffedi, una virago di cavallina; la seconda Star Grey, della Razza Ascagnano, con in sella Willie Carson; la terza Rufina, ancora della Cieffedi; si beve d’un fiato i 1.200 metri del Premio Melton e passa sul traguardo a pochi metri da me come un dardo acceso. Full Listing vince la quarta, un handicap “di transizione”; e la quinta è il Derby.
Mi appoggio alla ringhiera del tondino aspettando scenda dalla zona dell’insellaggio il mio Hailsham. I partecipanti sono venti: ne ricordo benissimo oltre la metà, come li avessi davanti adesso; la silhouette elegantissima del sauro dorato Beau Sultan, il favorito, cui la criniera è stata raccolta in trecce; la sagoma muscolata di Fortune’s Wheel, con in sella un Lanfranco Dettori ventunenne; è bello e nevrile l’italiano Kohinoor, di Luciano Gaucci, pronti e sereni due degli alfieri degli emiri dubaiani, Widyan, del principe Fahd Salman, e Walim, dello sceicco Maktoum al-Maktoum. E poi scende il mio: una pittura. Portato alla cavezza da una “lad” biondissima, e scuro di mantello, Hailsham mi sfila davanti caracollando nella sua assoluta, rassegnata normalità morfologica; a me pare una sintesi tellurica e pronta a deflagrare in pista del cavallo di Odino, di Pègaso, di Bucefalo, dell’Ippogrifo e di Furia. Al suo secondo e ultimo giro di tondino senza il fantino in sella, chiedo ad alta voce nel brusio della folla alla lad se il cavallo “le piaccia”; per tutta risposta si gira dall’altra parte.
Dietro Hailsham, procede dondolando il testone il locale Retinòspora, su cui è già salito, nella giubba a scacchi blu e celesti della Scuderia Colle Papa, il giovane Willie Supple; e dopo Retinòspora, ecco il carneade Marcus Thorpe, per me ormai l’irlandese, molto più bello di quanto mi aspettassi, tanto che cerco con lo sguardo il tizio dell’autobus per fargli il gesto del pollice alto. Ma non lo vedo. Torno piuttosto a scrutinare il cavallo incattivito sul morso nello sforzo di concentrazione, e poi lo vedo incedere imboccando il vialetto della pista sfoggiando una muscolatura superlativa e un passo lungo, saldo, autorevole; in sella a Marcus Thorpe, il grande Michael Kinane è come in trance; sul coprisella spicca il suo numero di gara, che è anche il mio numero feticcio, il 12.
Mi affretto agli sportelli del totalizzatore per piazzare la mia giocata, quella che da giorni ho pronta e per la quale ho sfidato i controllori metro e autobus e i bigliettai dell’ippodromo: diecimila lire su Hailsham, numero 8, vincente. La fila è alla romana, serpentinata, non diritta; qualcuno tenta di passare avanti, e c’è da resistere con i gomiti. Proprio quando il mio cervello trova una specie di pausa di riflessione mi trovo di fronte la cassiera pronta a battere il mio ticket e a ritirare la mia banconota blu. Perdo concentrazione. Quel che mi passa davanti agli occhi, a velocità astronautica, è una piccola processione colorata: l’irlandese; la sua giacca; il muso di Marcus Thorpe; un ristorante di pesce; il numero 12; poi ancora la faccia del tizio e infine la postura impassibile da re babilonese di Michael Kinane. Io e il mio encefalo ci dissociamo: di sua iniziativa, il cervello detta alla bocca le parole “cinquemila lire vincente il numero 8 Hailsham; e cinquemilalire di accoppiata 8-12”.
La cassiera non fa una piega e mi consegna il tagliandino con le due righe stampigliate; lo leggo: ho scommesso sulla vittoria del mio eroe, certo, come so di dover fare; ma, con una presunzione inescusabile e come preda di un raptus, ANCHE sul piazzamento tra i primi due, su qualcosa come venti partenti, di Hailsham e Marcus Thorpe. Con la testa come svuotata guadagno il prato a bordo pista sistemandomi, in mezzo a una folla strabocchevole, in prossimità del traguardo.
La voce dello speaker Piero Celli annuncia il “partiti” mentre oscillo la testa come un metronomo alla ricerca dello spiraglio sul traguardo dove entro due minuti e mezzo avrei visto saettare il derbywinner. Come in un calendario, tutti e venti i nomi dei cavalli escono dagli altoparlanti dell’ippodromo nell’ordine in cui percorrono la dirittura di fronte e la grande curva che immette alla retta finale. Hailsham, intuisco dalla cronaca senza poter vedere un bel niente, è ottimamente collocato, viaggia tra i primi cinque o sei; Marcus Thorpe deve invece essere rimasto intruppato nel plotone lungo la strada; era ovvio andasse così.
I cavalli entrano in dirittura d’arrivo; sinceramente non ricordo niente dell’evolversi della cronaca, ma distintamente invece il crescere come una bolla dell’emozione generale, del brusio di fondo, infine il fragore dell’enfasi fino all’estasi collettiva del passaggio sul traguardo; dove in un brivido vedo sfrecciare un uomo vestito di amaranto e bianco in sella ad un cavallo scuro, la frusta alzata al cielo e il numero 8 sul coprisella. Dietro di lui, a breve distanza, scorre il gruppone compatto, che non distinguo.
Hailsham ha vinto. Controllato. Dominato. Non sono in grado nemmeno di fare “cinquemila per cinque” per capire che cifra avessi da riscuotere da quanto sono emozionato. Ho altre priorità: mando un pensiero ai vecchietti della sala che immagino abbracciarsi tra loro col ticket vincente in mano consigliato da me; mi precipito al tondino del dissellaggio e della premiazione per applaudire i miei eroi: il cavallo, certo, ma anche il fantino Steve Cauthen, l’allenatore Clive Brittain, la lad biondissima e scostante.
Poi la voce di Stefano Sabatini scandisce dall’altoparlante l’ordine d’arrivo ufficiale, e le immagini mi si sgranano davanti, si crepano e vanno in pezzi. “Primo arrivato il cavallo numero otto, Hailsham. (pausa) Secondo il numero dodici, Marcus Thorpe. (pausa) Terzo il numero nove, Half A Tick. Quarto il numero uno, Another Bob. Quinto il numero tre, Beau Sultan”.
Vago per qualche minuto in ipnosi regressiva. La voce gracchia ancora, stavolta scandendo le quote del totalizzatore. Quella del vincente è discreta, meno del previsto. Poi ecco le quote dei piazzati; quella di Marcus Thorpe è spropositata; mi attraversa la testa una cometa di speranza. Arriva infine la più flautata poesia che abbia sentito recitare in quegli anni. Una poesia di un solo verso: “Scommessa accoppiata: MILLESETTECENTOSETTANTADUE”.
Sbianco. Non sono in grado di fare i conti. Mi trascino allo sportello dove avevo giocato; la cassiera meccanicamente infila il biglietto che le porgo nella fessura della cassa, e sul display appare la cifra da erogarmi sedutastante: lire 908.500. Strabuzzo gli occhi. La signorina mi allunga distrattamente diciotto ritratti di Gian Lorenzo Bernini, le banconote da cinquantamila lire. Tutti miei. Le lascio il resto e mi industrio a chiudere un portafoglio che un’evenienza simile non l’aveva mai vagliata; e infatti non si chiude. Ma la priorità è adesso un’altra: trovare l’irlandese e lasciargliene almeno una per sdebitarmi: non ci fosse stato lui, non mi sarei neppure accorto che Marcus Thorpe fosse in corsa. Glielo devo.
Scandaglio l’ippodromo per quaranta minuti senza successo; ne esco continuando a guardarmi intorno mentre un cavallo della Razza Dormello-Olgiata, Dordone, umilia Ernani e altri sei buoni soggetti nella corsa conclusiva: il “rompete le righe” di una giornata memorabile.
Mi dirigo alla fermata del 664, dove l’irlandese non c’è. Attendo, invano, che si palesi; dovrà pur rifare al contrario la strada del viaggio di andata. Ma l’autobus a un certo punto passa, e ci salgo al volo; la vettura riparte mentre tento un ultimo sguardo verso l’esterno. L’autista è lo stesso dell’ora di pranzo; le due o tre persone a bordo scendono tutte ben presto, lungo la via Appia. Mi abbandono in solitudine sul consueto sedile laterale, attento a qualsiasi vibrazione venga dalla postazione dietro di me. Non sale più nessuno.
Dell’irlandese non ho mai più saputo nulla. Marcus Thorpe, dal canto suo, da quel giorno in poi tornò a essere il cavallo normale che era sempre stato; non riuscì mai a vincere una singola corsa in Italia nonostante vari tentativi sempre in progressiva discesa di categoria, e alla fine tornò in Inghilterra per vincerne tre di nessuna importanza in ippodromi come Newcastle e Nottingham, contro striminzite comitive di brocchi. Chissà quale metallo fuso aveva in corpo quella domenica, e per quale giro del destino m’era venuto in qualche modo a cercare per avvisarmi che quello era il “suo” giorno. Penso a quanto mi sarebbe piaciuto raccontare questa storia dal mio punto di vista al fantasma irlandese, magari davanti a una tazza di tè, o a un Irish Coffee. Ma non si può aver tutto. Se non altro, dopo quasi 25 anni, l’ho ricordata a me stesso e l’ho raccontata a chi l’ha letta fin qui.