di Giampero Pulcini
[L’8 febbraio 2014 si è svolta a Prezza la prima verticale completa del Montepulciano d’Abruzzo Riserva Praesidium, in seguito all’accoglimento della mia richiesta in tal senso da parte della famiglia Pasquale.
A Enzo, Antonia e Ottaviano, intensamente partecipi all’incontro, e alla signora Lucia, autrice di un pranzo memorabile, rinnovo il ringraziamento per un’accoglienza disarmante.
Il pezzo che segue, scritto a caldo, nonostante il tempo trascorso conserva l’attualità dei racconti che riguardano le persone perbene. G.P.]
Corriamo vie laterali ad altissime increspature di roccia, desti dal tocco di una muta potenza. Gli occhi puntati nell’aria linda, dritti a spargere sguardo su orizzonti spettacolari.
Pare di volare benché ogni cosa suggerisca di tener fermi i piedi per terra: qualcosa di familiare tende dal calore delle strette di mano, dalla sincerità di parole semplici e chiare.
Non è casa, no, ma poco ci manca.
Valle Peligna
Giustamente, una volta, si chiamavano Abruzzi.
Difficile contrarre la varietà di una terra così generosa declinandola al singolare. C’è Abruzzo e Abruzzo, insomma, un mosaico di civiltà puntellato di concretezza.
Al suo cuore, la Majella e il Gran Sasso dispongono trasversalmente i poli che separano la parte declinante verso l’Adriatico da quella continentale, di orografia più irrequieta.
Un affusolato altopiano si snoda da L’Aquila verso Navelli; il bacino intramontano che lo prosegue porta il nome di Valle Peligna, avente come baricentro Sulmona e disposta su altezze comprese tra trecento e cinquecento metri.
Circondata da tre parchi nazionali (Gran Sasso e Monti della Laga a nord-ovest, Majella a sud-est, d’Abruzzo a sud) e uno regionale (Velino-Sirente a ovest), la conca esibisce una solennità di paesaggi che rallenta la percezione del fluire del tempo.
Inizia qui, sul finire del 1700, il cammino documentato del montepulciano cordisco; impiegherà circa un secolo per diffondersi nella regione, assorbirne gli umori e diventare d’Abruzzo.
Dove
Affacciata a settecento metri dell’omonimo monte sta Prezza, che dal versante del Sirente presiede[1] la vasta piana da cui trae respiro. Raiano e le sue storiche vigne son lì, trecento metri più sotto.
La catena del Morrone, che raccorda la Majella ai Monti della Laga, sbarra il passo a ogni influsso marino da est. L’altimetria non è da viticoltura di montagna, ma il contesto è tale da pareggiarne gli esiti su un vitigno che stenterebbe a maturare a quote superiori.
L’apertura della valle assicura luce e ventilazione costanti, la corona montuosa circostante fredda l’aria notturna anche in bella stagione; la terra, rossiccia e ricca di ferro, ha chiare incisioni limose che accentuano la durezza dalla matrice calcarea.
La disposizione a un’agricoltura di qualità tocca il vertice nella produzione di vino e carciofi. Nulla che richiami pratiche intensive: l’ordine apparente è nell’abbondanza di spazio, nel silenzio che aggira la stasi.
I Pasquale
È una storia lineare, intessuta di serietà.
Enzo Pasquale, perito chimico, cinquant’anni fa scelse di puntare su ciò che in famiglia s’era sempre svolta come attività complementare. Oggi, a settant’anni e ventidue vendemmie “ufficiali” in bottiglia, può guardarsi indietro con la soddisfazione d’aver dato sostanza a un’intuizione partorita dal senso di responsabilità e dall’orgoglio.
Achille, nonno di Enzo, viveva di agricoltura promiscua; faceva vino per uso domestico oltre che per vendita o scambio su base locale.
Il figlio Ottaviano era ferroviere e produceva vino anche lui, più per gusto che per guadagno. Morì prematuramente nel 1969, proiettando di colpo Enzo alle redini della famiglia.
La scelta del vino fu logica benché non priva di rischi: se infatti il montepulciano aveva preso origine da quell’altopiano, era sulle colline orientali che stava acquisendo notorietà per mano di Edoardo Valentini ed Emidio Pepe.
Le vigne di Raiano erano sospese tra noncuranza e abbandono, frammentate in piccole unità contadine di tipo familiare. Enzo prese a seguire le sue parcelle con attenzione, lavorando meticolosamente il suolo; abbassò le rese sentendosi dare del matto per ogni grappolo lasciato in terra. Bandì la chimica e brandì la zappa, tracciando un solco lungo cui la famiglia Pasquale si muove oggi con la sicurezza di chi ha ottenuto dai fatti il sostegno alle proprie convinzioni.
Agli esordi la vendita fu circoscritta allo sfuso, con estemporanei tentativi di imbottigliamento sul finire degli anni ’70; la prima annata ufficiale è la 1988.
Dalla moglie Lucia – maestra elementare in pensione – Enzo ha avuto due figli, Antonia e Ottaviano, entrati a tempo pieno nell’impresa dopo aver terminato gli studi (di ingegneria la prima, in psicologia il secondo) apportando un contributo fondamentale in termini di avveduta modernizzazione. Emerge una realtà piccola e unita, in cui ogni componente mantiene un ruolo importante da svolgere.
In vigna
Ordine e rigore balzano all’occhio con prepotenza, difficile immaginare un’applicazione più intensa del concetto di custodia.
Dal campo alla bottiglia ogni passaggio è volto a infondere nel vino la massima espressione territoriale dell’uva, secondo procedimenti in cui nulla è lasciato al caso.
Qui naturalità non fa rima con anarchia: tutte le lavorazioni in vigna – dalla zappatura alla spollonatura fino alla vendemmia – sono svolte a mano. I cinque ettari di proprietà, interamente coltivati a montepulciano, sono localizzati in prossimità di Raiano e constano di tre appezzamenti pianeggianti distanziati tra loro di qualche centinaio di metri; le piante più vecchie hanno quarant’anni, la messa a dimora delle più giovani risale al 2006.
L’allevamento è a spalliera, il tendone non avrebbe qui le ragioni che conserva quando sente il mare e ombreggiando argina il calore. I nuovi impianti sono a cordone singolo, retti da pali in abete lungo cui si allinea un sistema regolabile di fili d’acciaio tesi a raccogliere il verde durante la crescita, facilitando lo svolgimento delle operazioni manuali. La potatura è corta e severa; i grappoli son tenuti bassi e sfogliati per favorire l’arieggiamento, mentre si contengono al massimo le cimature.
Le concimazioni si effettuano con letame e, più raramente, sovescio di favino; rame e zolfo costituiscono la base dei trattamenti da cui è escluso qualsiasi ricorso a prodotti di sintesi. Le rese si attestano sui 45 quintali per ettaro. La vendemmia avviene nell’arco di tre o quattro giorni intorno alla metà di ottobre, attendendo il compimento della maturità fenolica dedotta dalla raggiunta tonalità rosacea del raspo.
Nel 2012 un’assenza di piogge protrattasi per cinque mesi consecutivi ha messo a repentaglio la sopravvivenza di metà vigneto: la paura che ne è seguita ha spinto i Pasquale a introdurre un sistema di irrigazione selettiva dotato di rubinetti indipendenti per singolo filare, da attivare solo in caso di grave urgenza.
L’abnorme abbondanza di precipitazioni registratasi nel 2013, accompagnata da problematiche opposte, ne ha resa per ora superflua la presenza. Resta tuttavia la constatazione di sbalzi climatici ormai privi di gradualità che, svuotando di significato i dati relativi alle medie, suggerisce riflessioni aggiornate circa l’ortodossia dei metodi utilizzabili per limitarne i danni.
La cantina
La vinificazione avviene nel cuore di Prezza, in un antico edificio ristrutturato. L’uva diraspata è subito collocata in due silos verticali in acciaio inox della capacità di 140 quintali ciascuno, mai riempiti completamente dati i volumi raccolti. La fermentazione è spontanea, rapida ad attivarsi e lenta a svolgersi; la collocazione degli ambienti è tale da mantenere la temperatura interna sempre fresca, eliminando sul nascere ogni questione in merito a un suo eventuale controllo.
Un contatto prefermentativo con le bucce compreso tra dodici e diciotto ore segna la nascita del Cerasuolo, sottratto tramite salasso. La massa destinata alla Riserva prosegue invece il suo cammino con una macerazione alcolica di due settimane, terminata la quale si procede alla svinatura e alla torchiatura manuale delle vinacce il cui estratto è reintegrato nel vino per il completamento della fermentazione, dopo opportuno travaso.
L’affinamento in acciaio si protrae per due anni; segue un passaggio di ulteriori due anni in botti di rovere di Slavonia di 6 e 19 ettolitri cui si affiancano una decina di barriques francesi acquistate nel 2002, ormai depurate dell’originaria capacità cosmetica. Il vino viene quindi assemblato per decantare spontaneamente in acciaio per sei mesi, senza filtrazioni, infine è imbottigliato e posto in commercio.
La produzione aziendale consta di 20.000 bottiglie di Montepulciano d’Abruzzo DOC Riserva e 4.000 di Cerasuolo d’Abruzzo DOC Superiore; completano la gamma il Ratafià[2] e un delizioso Mostocotto[3].
Il vino
I piccoli acini dalla buccia spessa e bluastra paiono passare dallo stato solido a quello liquido senza mediazioni, trasponendo una fittezza che il tempo non allenta.
La fibra del montepulciano d’Abruzzo è tale da offrire raramente varchi al virtuosismo; nondimeno, l’assenza di forzature estrattive può consentirgli di seguire direttrici di non scontata coerenza.
Un vitigno retto, di materia, che dei luoghi rende una sintesi talora brutale ma profonda al punto da riflettere elementi antropologici prima ancora che pedologici: coriacea e radicata com’è, la civiltà contadina abruzzese non potrebbe trovare medium più efficace per rivelare al mondo i suoi umori profondi.
La Riserva dell’azienda Praesidium, di cui s’è avuta occasione di assaggiare tutte e ventidue le annate imbottigliate dal 1988 al 2009, è un vino rilevante.
Se infatti le colline adriatiche sono fiorite di interpreti divenuti celebri negli ultimi trent’anni, l’interno è rimasto sguarnito di testimonianze autorevoli. Della tradizione avanza la capillarità e non la cura, come grida la sciatteria di vigne sacrificate a un autoconsumo scarsamente esigente.
Enzo Pasquale ha avuto il merito di piazzare un puntello, di farsi argine al declino. Ha creduto nel luogo e ha rischiato per sé, nutrendo un’ambizione propositiva.
Montepulciano d’Abruzzo Riserva, Praesidium – 1988 / 2009
La progressione nella sicurezza esecutiva ha impresso un’espressività più matura, senza tradire il senso di un’appartenenza rigorosa.
Impensabile trovare oggi la languida crepuscolarità di 1988 e 1989, i primi due millesimi che non recavano ancora la dicitura ‘Riserva’ essendo stati affinati un solo anno in cemento. L’abbondanza di impegno supplì alla scarsità di mezzi: l’esiguità di spazi nelle vecchie grotte scavate dal padre costrinse Enzo a macerazioni brevissime – un paio di giorni, forse tre – per far spazio alle uve provenienti dai cicli successivi di raccolta. La delicatezza di tocco, apportata dalle follature, si mostra in un granato schiarito di cerasuolo che anticipa profumi di mandorla, melagrana e caffè freddo; una scia polverosa di dissolve su note di cantina, lo sfondo ferroso è la grafia del suolo che sostenne subito la volontà.
L’annata 1990 ha trascorso due anni in cemento. L’introduzione dei rimontaggi ha infuso una tonalità rubino e un piglio meno esitante, col frutto rosso che riluce in un contesto scuro. Conciso e continuo, svolge la sua trama senza scosse, prefigurando la fisionomia dei vini che verranno.
1991 e 1992 sono versioni di passaggio senza essere interlocutorie, disegnando confini inusuali ma netti. La prima è una cartolina – genziana, zafferano, calce – appena sfocata nel finale esile di una vendemmia umida; la seconda brilla di bellezza tutta sua con menta, fragole e carne secca al naso, cui s’accoda un’asprezza dissetante.
La 1993 delinea con più precisione lo stile della casa: largo di spalle e ruvido di tessitura, apre a fiori, fieno, humus e amarena spiritata. Il tannino privo di spigoli, efficacissimo sul cibo, la fa cercare per il riassaggio a pranzo.
Se la 1994 profuma di cera e tè verde con una serenità che non sa di resa, la 1995 è più impegnativa e contrastata. Esordisce l’affinamento in botti grandi che qui erano nuove, un che di lussuoso s’affaccia nell’avvenenza balsamica. Paga dazio alla golosità con la moneta della riconoscibilità, difficile predire se un affinamento ulteriore saprà sciogliere il make-up.
La 1996 è ermetica e cerebrale, al punto da lasciare il dubbio se sia allo zenit o non si risolverà mai. Cambia traiettoria di continuo, inseguirne la descrizione appare sterile come dar forma a una corrente; lascia la pagina piena e il bicchiere vuoto, il che è sempre meglio del contrario.
La 1997 tiene fede alla fama che l’accompagna sin dall’uscita: granitica, trattenuta, pressoché insensibile all’ossidazione. Accigliata su note di prugna ed erbe di montagna, alla beva è cruda e gagliarda, appena rigida. Del suo decennio è il vino che forse durerà di più, per ora è quello che diverte di meno.
La 1998 è splendida: tutta in chiaroscuro, elegante di sigaro, catrame e tisana amalgamate da un che di combusto. Misura e scioltezza segnano una versione a tinte pastello, scura ma non cupa, che libera una parte aerea. Ciò che perde in potenza guadagna in mobilità, non è la bottiglia che più impressiona ma quella da portare a casa insieme alla 1999, altro capolavoro del genere. Lenta ad aprirsi su note di fumo, caffè e fiori secchi, svela in bocca un limpido chiarore di frutto che fa da contrappunto all’ombrosità del naso.
Il calore della vendemmia 2000 è nei riconoscimenti di fegato, lavanda e resina. Densa ma asciutta, è assottigliata da un’agilità inattesa che bilancia la percezione orizzontale di volume.
La 2001 è qualcosa in più di un biglietto da visita: terra e spezie arricchiscono il frutto rosso di sfumature fané, nella durezza di un sorso in cui succo e tannino preludono l’armonia di un finale magistrale. Non ha il pregio dell’imprevedibilità, ma la forza che lo spinge ravviva l’equilibrio con una reattività priva di incertezze.
Il battesimo della barrique arriva con l’annata 2002, in teoria la meno indicata a subire la stretta del legno data una materia vessata dal freddo e dalla pioggia. Il bicchiere fuga i pregiudizi e mostra una fisicità aggraziata, morbida ma non molle. La 2003 – aperta di anguria, acacia e gelatina all’arancia – è prodiga di sensazioni rassicuranti che però svaniscono a centro bocca dove un alcol fuori fuoco cerca appiglio in estratti che non trova.
Un evidente residuo zuccherino marca la 2004, sia nei profumi di olive al forno e panforte che nella sferica generosità del sapore. Edizione isolata, da fine pasto, probabilmente longeva ma a dover indicare una bottiglia significativa dell’azienda non sarebbe questa. Scenario ribaltato con la scalpitante incompiutezza della 2005, uno di quei vini che soddisfano la voglia di difficile nei giorni in cui annoiano le cose perfette: torvo di gomma e benzina, srotola un tessuto di corrugata eleganza finalizzata da una magnetica sensazione di agrumi.
Una pressione sconcertante distingue la 2006, vera dichiarazione di guerra al tempo che passa; la trasparenza nel restituire la fisionomia arcaica del vitigno lascia avvistare orizzonti da grand vin.
La torrida vendemmia 2007 rende un vino di potenza, sanguigno e selvatico, che frena l’irruenza su un rettilineo di sassi. Difficilmente svilupperà un’evoluzione di dettagli, eppure la fusione tra le parti esalta la riuscita di un millesimo complicatissimo.
La 2008 – parzialmente affinata in botti nuove da 20 ettolitri – è una molla caricata, la cui compressione trasmette per paradosso un’idea elettrizzante di libertà. Naso incisivo di timo e tarocco, che torna nella persistenza insieme a un amaro di assenzio. Se la durezza tattile è un muro al momento privo di varchi, la fremente pulizia gustativa fa presagire sviluppi di alto livello.
Completa il viaggio la 2009, un monolite nero. Brusco, corazzato, nel secco zigzagare tra lingua e memoria scioglie una veracità che scuote e assicura.
[1]Circa l’origine etimologica di Prezza, suggestiva è l’interpretazione secondo cui in unione con la vicina Bugnara avrebbe composto la locuzione preda vinaria (“potere della cantina”) a testimonianza di una vocazione antichissima [Prof. Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Si ringrazia Emanuele Giannone per la segnalazione].
[2] Ratafià sta per ut rata fiat (“affinché sia ratificato [l’atto]”), a indicare l’antica usanza di suggellare atti o patti con un bicchiere di questo vino aromatizzato ottenuto dall’unione di montepulciano e amarene fermentate, arricchito di zucchero e alcol.
[3] Il Mostocotto è frutto della bollitura per 16-18 ore di parte del mosto destinato alla Riserva, privato delle bucce e senza l’aggiunta di zuccheri, prima dell’inizio della fermentazione. Il mescolamento manuale, a contenitore aperto, dev’essere continuo per evitare di far caramellare il liquido; una volta ridotto a un quinto del volume originario, questo nettare analcolico può dirsi pronto per i suoi vari usi.
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