di Fabio Rizzari
Il vino giovane ha questo pregio: non è vecchio.
Friedrich Engels, di cui quest’anno ricorre il bicentenario dalla nascita, affermava entusiasta di essere “sempre pronto a un’idea nuova e a una vecchia bottiglia”. Lo ero e lo sono ancora in parte anch’io; in scala uno a un sessantaquattresimo rispetto al grande pensatore tedesco.
Però l’emozione di aprire un Borgogna di trent’anni, un Barolo di ventinove, un Bordeaux di quaranta, non vale per me – oggi – il piacere di bere un vino giovane.
Qui sarebbe necessario, per spegnere sul nascere l’incendio di obiezioni legittime del conoscitore di vini, passare in rassegna tutti i limiti che impediscono spesso a un vino appena fatto di essere ben apprezzato: quella componente gustativa è ancora ruvida, quell’altra componente aromatica è ancora embrionale. La riduzione qui, la riduzione là. I tannini, eccetera.
Ma quando un vino giovane non ha freni particolari, libera l’energia luminosa di un piccolo sole.
La più recente evidenza di questa che per me è una certezza è arrivata da un campione da botte di Rossese di Dolceacqua Curli 2019. La bottiglia mi è stata gentilmente inviata da Giovanna Maccario, la vignaiola autrice, appena prima dello tsunami pandemico di marzo. Giaceva quindi dentro un cartone da varie settimane, in una cantina di appoggio irraggiungibile senza autocertificarsi validi motivi di salute o di prima necessità.
“Ma come, l’hai aperta solo ora, non era nemmeno solforata!”, mi ha scritto Giovanna. Sì, l’ho aperta solo ora. E bevuta con somma soddisfazione. Il 2019 ha pieno carattere curlesco: profondo nel colore, atipicamente (per la tipologia) sui frutti neri e blu all’olfatto, potente nella trama tannica. Il tutto però declinato con la grazia, la levità, l’esuberante nonchalance della gioventù.
Sono rimasto ammirato. E ho cercato di ricordarmi chi, in un remoto passato, mi aveva detto con semplicità: “non c’è nulla di più buono del vino in botte”. La bottiglia è un compromesso inevitabile per trasportare e consumare il vino senza l’uso di un argano.
Ma è come vedere la riproduzione di un quadro.
Quando si è davanti all’originale è tutta un’altra cosa.