di Raffaella Guidi Federzoni
Perché solo parlare di vino? In fondo se ne può fare a meno, soprattutto in questo periodo di calura, spossati dal carico di lavoro e incertezza dei mesi scorsi, meglio evitare gli eccessi alcolici anche solo nelle parole.
Dedichiamoci al cibo, nutrimento del corpo e dell’anima. Il cibo, quello presente ogni giorno due o tre volte nella nostra routine italo-mediterranea. Il cibo, questo argomento di conversazione ambosex e transgenerazionale, che evidenzia la differenza fra un maschio over quaranta dai cromosomi italici e uno di stirpe nordica o asiatica. Perché il primo sa di sapere e lo vuole dimostrare, mentre il secondo sa di non sapere e se ne frega.
Dedichiamoci dunque – lo so, sto usando il pluralis maiestatis, ma ora lascio perdere – a quella roba variamente solida che ingurgitiamo più o meno dalla nascita e che continueremo a farlo fino alla nostra morte corporale, gengive permettendo.
Stavolta però l’approccio non è né dolce, né sfumato, né invitante, né tradizionale.
Stavolta voglio scrivere riguardo al Disgusting Food Museum, sito nella ridente città di Malmo, Svezia. Un Museo demenziale e innovativo più vicino concettualmente a un parco dei divertimenti che a un museo tradizionale. Come il Museum of Sex a New York o al Museum of Ice Cream a San Francisco.
Tale museo è al centro di un articolo apparso sul New Yorker qualche mese fa*. La genesi di siffatto luogo di “cultura” è interessante: il suo fondatore, un nativo californiano poi trasferitosi in Svezia, dopo aver visitato in Croazia il Museum of Broken Relationship, ha creato in Svezia prima il Museum of Failure e nel 2018 il Museo del Cibo Disgustoso.
La visita non è per stomaci delicati poiché dopo aver ammirato ottantacinque orrori culinari il tour si conclude con l’assaggio di una dozzina di piatti.
L’autrice dell’articolo riporta l’esperienza di un giornalista belga, il quale durante il tasting ha rigettato dieci volte, battendo il record precedente del museo che registrava sei vomitate. Misericordiosamente i biglietti d’ingresso sono stampati su sacchetti per il vomito, come quelli forniti in aereo.
Fra gli assaggi:
1) un piatto islandese a base di pescecane, chiamato hakarl “mangiarlo è stato come masticare un formaggio tirato fuori dalla spazzatura dopo tre settimane durante le quali ci avevano pisciato sopra tutti i cani del quartiere.
2) un frutto chiamato durian, proveniente dal Sud Est asiatico che “odorava di calzini lasciati in fondo all’armadietto di uno spogliatoio, spruzzati di solvente per vernici”.
3) Surstromming, prelibatezza amata nella Svezia settentrionale, consistente in aringhe fermentate “Mangiarle è stato come inghiottire un boccone di cadavere”.
Mi fermo un attimo a pensare agli schizzinosi che rifuggono gli aromi di merdina nobile, di buccia di salame avariato o di pelo di cane bagnato presenti in certi vini.
Sorvolo altre dettagliate descrizioni per passare alla seconda parte dell’articolo, quella più interessante per me.
La giornalista del New Yorker parte dall’origine della parola “disgusting” e la sua percezione. Secondo Darwin il disgusto, insieme a rabbia, paura e tristezza, è un’emozione umana basilare. Ci sono motivi nel trovare alcuni cibi offensivi, uno di questi è che un alimento particolarmente puzzolente è indice di decomposizione, con un livello altissimo di batteri e altri ameni portatori di infezioni e malattie.
Il salto da Darwin alla psicologia evolutiva è facile e infatti la giornalista lo compie con disinvoltura.
Dopodiché, essendo ella nata in Cina da genitori cresciuti nel corso della peggiore carestia che si possa immaginare – durante la quale senza problemi venivano cucinati e mangiati ratti, serpenti, cani, tartarughe – ricorda con tenerezza i cibi della sua infanzia tipo uova fermentate dal colore verde muffa. Non si vergogna a raccontare del disgusto provato nell’assaggiare per la prima volta all’età di otto anni un piatto occidentale: ravioli di formaggio.
Divenuta adulta e cittadina statunitense, descrive come durante una cena insieme ad amici come lei cino-americani, mentre felicemente tutti azzannano cosce di rana e ingurgitano arterie-interiora-piedi-cervelli di animali vari cucinate in un calderone comune, uno dei commensali candidamente racconta del suo disgusto nel mangiare per la prima volta una pizza margherita “Ho pensato che quelle macchiette bianche di burrata fusa fossero di vomito fresco”
Il fatto che i ravioli e la pizza summenzionata fossero di fattura statunitense può essere considerata un’attenuante al disgusto dei novizi.
L’autrice è talmente intrigata dall’argomento che si fa mandare a casa dei campioni del materiale esposto al Museo, dopodiché si sottopone a un giro di assaggi in collegamento con il direttore dello stesso che le fa da Virgilio nell’esperienza.
Il suo palato dalle radici culturali e culinarie cinesi non trova per niente disgustose alcune pietanze: un gambero fermentato delle Filippine “molto simile a una salsa di pesce cinese”, cavallette messicane marinate nel peperoncino “croccanti e deliziose”. Un misto di grillotalpa** “muesli salato” e vermicelli sago** “prugne dense e dal sapore di nocciola”, entrambi disidratati.
Pausa digestiva.
L’articolo prosegue incamminandosi nel sentiero del politically correct, del rispetto per qualsiasi etnia, di una certa antipatia per il predominio per la cultura occidentale in generale e quella nordamericana in particolare.
Il Museo ha riscosso un certo successo, ma è anche stato accusato di istigazione al pregiudizio culturale e di razzismo.
La classificazione di tutti i cibi asiatici come “cinesi” irrita la giornalista, la quale riporta episodi recenti di xenofobia nei suoi confronti da parte di concittadini statunitensi a causa della sua razza, dopo che l’ex Presidente Trump ha definito il Covid 19 come The China virus.
Così, il mio divertimento nella lettura finisce e comincia l’impegno a seguire tutte le elucubrazioni comprovanti la tesi che il disgusto sensoriale sia determinato più da un imprinting stratificato da generazioni che dall’oggettiva sgradevolezza di un alimento.
Su questo sono abbastanza d’accordo, si potrebbe applicare anche al vino, ma lascio perdere per ora, ho già scritto fin troppo.
Mi basta rassicurare i miei lettori eno-fanatici/ terzomillennisti/biecamente conservatori che nessuna esperienza gustativa di qualsiasi vino – persino il più acetico-torbido-cadaverico – raggiungerà l’orrore di mangiare un balut, prelibatezza filippina consistente nel feto contenuto in un uovo di pollo, sgusciato e mangiato tutto intero (piume, becco, sangue, ecc.).
*YUCK! – Cosa rende un cibo disgustoso, e chi è in grado di giudicare? Di Jiayang Fan – The New Yorker, 17 maggio 2021
** Sono andata a cercare le foto di entrambi gli insetti e li ho trovati REPELLENTI.
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