di Floriana d’Amely
Le pareti in mattoni del locale, stretto e lungo e senza finestre, diffondevano un’ombra rosso scuro che ne riduceva i volumi come un rivestimento invisibile in cui doversi fare spazio. Un fascio di luce gialla, nell’ angolo accanto al pianoforte, illuminava un microfono, qualche sedia e la custodia nera di una chitarra. I piccoli tavoli quadrati ospitavano ancora poche persone, nella penombra, e già qualche bicchiere.
Un brusio sommesso, come una nebbia leggera, appannava le cornici alle pareti e accompagnava il volteggiare dei vassoi intorno ai tavoli, a mano a mano che si moltiplicavano gli sguardi, i sorrisi, le strette di mano. Quando una silhouette blu in scarpe rosse entrò dentro il fascio di luce e guardò verso la penombra della sala, aggrottando la fronte e spingendo lo sguardo oltre i capelli ramati che le sfioravano le spalle, il brusio si ridusse a qualche tintinnio di bicchiere. La donna prese il microfono e lo avvicinò alla bocca con una leggera esitazione: “si sente?”, chiese mentre scostava la gamba destra verso la sedia da cui si era alzata, cercando un piccolo appiglio all’emozione.
Quella gamba, leggermente divaricata sotto l’abito corto, immobile e come tesa in uno sforzo che il muscolo della coscia rivelava sotto il fascio di luce, entrava nella scarpa rossa con una sensualità pacata e composta, come la voce con cui presentava la serata, e con la stessa ritrosia quasi infantile che il cinturino le disegnava sul collo del piede, ancorandolo a terra. Il corpo, esile e irrequieto, mostrava nella curvatura appena accennata della schiena una morbidezza insieme timida e arrendevole che a certe intonazioni delle voce, che fluiva quasi liquida nel microfono come in una flûte, rivelava l’intreccio ancora ruvido tra la referenzialità della vita e il sortilegio del gioco.
Quando Giulia tornò a sedersi, si strinse accanto a me e mi prese con forza la mano, sussurrando con lo sguardo un possibile “è andata…!”; e mentre le note ambrate di Chico Barque iniziavano a riempire i bicchieri, la forza crescente di quella stretta regalava a entrambe il vigore irruento del gioco che la vita non aveva ancora attutito.
Avevo ascoltato la sua presentazione seduta su una panca molto stretta, addossata alla parete, che mi costringeva a una posizione innaturale, con la schiena irrigidita lungo le connessioni dei mattoni, le spalle tese, la testa rivolta verso il fascio di luce e la guancia a sfiorare la parete; ma quella stretta di mano, alla quale avevo cercato di abbandonarmi puntando i piedi contro il disagio che da sempre mi dava il contatto prolungato con la mano di una donna, mi aveva in parte ammorbidito: mentre cercavo di conquistare alla schiena, e poi lentamente alla nuca, millimetri di mattoni, aderendo al muro con la fissità atona di un geco, avevo sentito sciogliersi tra le scapole ed iniziare a scorrere per il corpo un nuovo abbandono, un confuso languore che tra la testa reclinata e gli occhi socchiusi univa in un unico punto ciò che ero quando ancora chiamavo ‘abbandono’ il cedimento e ciò che stavo cercando di conquistare, millimetro dopo millimetro e parola dopo parola, sul tatami e sul lettino.
Presi allora il bicchiere largo e tondo di cognac che Pietro, degustando a piccoli sorsi, posava ogni tanto sul tavolino e lo avvicinai alla bocca, anch’io – come prima Giulia col microfono – non senza una leggera esitazione: ”lo sento?”, mi chiedevo. L’aroma insieme pungente e vellutato mi frizzò tra le narici e la fronte come un improvviso spruzzo salmastro; non mi ritrassi, tuttavia, anzi schiusi le labbra in attesa che dal fondo del cristallo inclinato mi giungesse qualche goccia di liquore: e nell’attesa, che mi parve lunghissima, mi sembrava di essere con tutto il corpo dentro il bicchiere, attonita come un pesce nell’acquario, stupita dalla forza di quell’aroma tanto diverso dal rassicurante tepore vegetale delle mie tisane. Io non bevevo alcolici, per scelta e per vigliaccheria.
Dopo il primo sorso tornai ad appoggiare la testa sulla parete e ad occhi chiusi provai ad ascoltare, oltre la musica, il formicolare della lingua insieme punta e accarezzata dall’alcol, godendo di quel formicolio come se fosse l’intorpidimento di un arto che riprendeva lentamente a funzionare dopo essere stato a lungo immobile in una posizione innaturale; mi pareva di avere una lingua troppo grande che guizzava in un acquario troppo piccolo e la sentivo immersa in quella luce rosso scuro che dalle pareti di mattoni filtrava ora tra i vasi della mia bocca rendendoli visibili, in un’unica, immensa cavità che era insieme dentro di me e che mi conteneva.
Quali erano i miei confini? Quando ancora appuntavo su agende e diari croccanti di scrittura vorace, e segretissima, le aritmie scomposte del mio cuore, disegnavo anche piccole immagini dai colori netti, ripassandone i bordi con un pennarello nero ben calcato per definirne e sottolinearne i contorni: le smarginature erano pericolosi abissi, arabeschi sulle incrinature di una sottile lastra di ghiaccio. Non fumare era un confine, come non bere alcolici, sorbire lentamente tè e tisane con la tazza bollente poggiata sull’addome, avere un matrimonio felice, due figli maschi a una giusta distanza l’uno dall’altro, vivere in un bosco e curarne periodicamente la recinzione contro le falle aperte da istrici e cinghiali, veleggiare con la luna alla traina, sentirsi al centro dei proprie desideri: tutti questi erano solidi confini.
Ma quella sera un cancello lungo il mio confine doveva essere rimasto aperto o forse il bordo nero della mia sagoma non era sufficientemente calcato rispetto al rosso scuro dei mattoni: per cui, quando il cameriere con cura quasi ostentata sistemò sul tavolo la tazza e la teiera di una tisana che non avevo ordinato ma che lui ricordava da una precedente serata che era ciò che io avrei avuto piacere di bere, sorrisi grata e lusingata alla sua cortesia, oltre che al pallore che gli illuminava il volto nella penombra e che si diradava mano a mano che addentravo lo sguardo oltre il colletto sbottonato della sua camicia amaranto, ma la compattezza soda di quella ceramica lattiginosa, stretta tra i riflessi ramati dei calici di cristallo, mi sembrò all’improvviso non il tiepido recesso in cui amavo raggomitolarmi come davanti a un camino acceso, ma un abito accollato e disadorno che mi faceva sentire goffa.
Pure, strinsi la tazza calda tra le mani e iniziai a bere lentamente, non tanto per evitare di scottarmi, quanto perché quel liquido bollente non spegnesse il fuoco che il cognac, sorso dopo sorso, mi aveva acceso sulla lingua e sul palato.
Quando gli applausi lasciarono il posto alle sedie spostate rumorosamente e alle giacche recuperate dalle spalliere, mi avviai sottobraccio a Pietro lungo il vicolo ripido e stretto, commentando la straordinaria vocalità della cantante e la composta musicalità del chitarrista. Ma già sapevo che, nella memoria, la complicità di quella stretta di mano e il formicolio della lingua avrebbero rubato la scena alla musica brasiliana e alla tisana della quale pure ero stata omaggiata.
1 Ottobre 2014-luglio 2021
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