di Germaine Wittelsbach
Ho da sempre avuto un occhio e un orecchio di riguardo per gli artisti minori perché raramente si sono rivelati tali. È il caso di Annibal Gantez, organista, direttore di coro e maestro di cappella marsigliese vissuto nella Francia del 1600. Di lui poco si sa, ma è quel tanto che basta per capire quanto genio ci fosse in quell’enofilo ante litteram con le sembianze di William Shatner e la sagacia del conte Mascetti.
Di indole nomade, sia per apprendere i diversi stili di canto e di vita delle regioni francesi, sia per l’inabilità di adattamento ai vari ambienti musicali, Gantez spaziò fra lussi inaspettati ed espedienti appena bastevoli, attirando a sé ospitalità gradite o diffidenti da parte di canonici e colleghi.
L’irrequietezza, l’impulsività, l’esuberanza della facondia e l’immancabile avvicendamento fra un “Bordeaux e un bordone” si impongono nel suo L’Entretien des Musicens. Qui l’elogio del buon vino al bicchiere e della bottiglia prelibata ricorre di frequente: un bizzarro pretesto per descrivere i costumi e sottolineare i (dis)gusti dei musici del tempo. Tra le cinquantasette lettere che compongono l’Entretien des Musicens, si distingue il passaggio sul perché un musico beve e deve bere:
«Poiché avete gran vaghezza di mie notizie, vi dirò che durante il caldo estivo non trascuro ciò che usano i buoni giardinieri: innaffiare spesso i giardini; penso che la cagione è che nell’estate non abbiamo tante piogge quante nell’inverno; il cielo dunque assorbe nell’estate ciò che l’inverno ci invia con troppa abbondanza.
Poiché il cielo beve e la terra beve, e l’uomo partecipa dell’uno e dell’altro, cioè l’anima del cielo e il corpo della terra, perché non berremmo anche noi? Un musico non è stimato se non è un buon bevitore, e vediamo per esperienza che coloro che meglio hanno alzato il gomito più si sono distinti. Bere è il piacere più innocente e grazioso….
E poiché suol dirsi che dal mattino si vede il buon giorno, apro la bocca prima degli occhi, mi faccio il segno della croce e la prima cosa che faccio è bere, sia per conservarmi la salute, sia per evitare i cattivi influssi… D’altra parte, benché io v’abbia scritto una volta della virtù della temperanza, la quale per un musico consiste nell’annacquare il vino, tuttavia conservo ancora memorie della Normandia, e vi dico e vi assicuro che la donna guasta l’uomo, l’acqua il vino, la carretta la strada.. L’acqua dà al volto i colore della pianta dei piedi, fa nascere i ranocchi.»
Il vino inteso dunque come un’arte. Un’opera che non ha bisogno di predicatori perché, quanto la musica, è essa stessa eloquente. Con la medesima esaltazione alludeva inoltre all’ignoranza, non solo di cantori ma perfino di maestri:
«Il nostro mestiere non bisogna dirlo, ma farlo. Noi vediamo oggi in musica molti teorici e pochi pratici, e bisogna credere che nel coro c’è bisogno d’un fagiano non d’un pappagallo, d’un uomo operoso, non d’un ciarlatano. Il folle è saggio quando tace, e colui che serra le labbra è stimato prudente. Nella bocca chiusa non entrano le mosche, e i cantori dovrebbero aprirla soltanto per bere. Tuttavia se vi è proprio necessario di parlare, siate brevi alla maniera dei laconici, i quali dicendo: “Conosci te stesso”, han detto più di quanto può contenere un libro.
Chi maneggia i bicchieri di vetro corre il rischio di romperli, e non sempre si è felici. Si può riparare a questa colpa, facendo qualche altra buona azione. L’errore è attenuato dal pudore o accresciuto dalla sfrontatezza. Il pentimento delle colpe commesse ci fa evitare quelle future. Colui che fa tutto ciò che può non è obbligato a far di più. Bisogna aver vergogna di entrare nei luoghi proibiti o di uscire ubriachi da una cantina, non di ciò che capita accidentalmente. Un antico diceva che non bisogna aver vergogna di entrare in una taverna, purché se ne possa uscire.
C’è chi discorre a lungo di musica e non sa concatenare bene sei battute di musica. E vi è chi ha osato stampare trattati teorici per insegnare, e non ha mai composto un buon mottetto. Dunque, secondo Isocrate, quella gente fa male, perché parla di cose che non saprebbe fare. Ciò mi fa ricordare d’un organista che conobbi quando ero all’Hâvre-de-Grace, il quale, benché non sapesse nulla, si vantava di primeggiare nel suo mestiere, e, domandatagli spiegazione, rispose: “Riesco a vivere d’un mestiere che non conosco.”
Vi lodo di odiare a morte gli ignoranti. È meglio essere accattone che ignorante, perché l’ignoranza è la fonte di tutti gli errori. Gli ignoranti sono temerari e quasi sempre cattivi. Un uomo ignorante è come una statua di legno e poco diverso dalle bestie. »
In sintesi: Gantez era un profeta quando le cose andavano bene e un legislatore quando le cose andavano male. Era il 1643, ma aveva già a che fare con gli influencer e le wine lover*.
* entrambi indeclinabili
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