di Francesco Falcone
Certe domeniche pomeriggio, nella campagna di Gioia del Colle, il mio paese, la mia campagna, si alzava un vento di tramontana micidiale che sollevava polvere colorata di rosso, come la terra, e tutto iniziava a lievitare come la pasta del pane sotto il panno caldo della nonna.
In quei momenti, gli spifferi che s’infilavano attraverso gli infissi della vecchia masseria, sembravano le urla strozzate dei miei cuginetti, che in mezzo all’aia giocavano a pallone, e come lacci impalpabili avvolgevano le caviglie degli adulti, degli zii e delle zie, e li facevano cadere.
Gli uomini si mettevano i vestiti sbagliati, quasi fossero pronti per la foto del proprio funerale, e le bambine diventavano piccole donne, con il fazzoletto in testa e un alone di vecchio profumo spruzzato senza misura.
In quelle domeniche pomeriggio, il timbro rauco di Sandro Ciotti, il vocione nasale di Enrico Ameri e la severa cantilena di Enzo Foglianese si alternavano con la solita cadenza nelle mie orecchie, e il profumo della cucina penetrava senza filtri nelle mie narici.
Ancora oggi avverto quelle voci e quelle sensazioni, quasi si trattasse di allucinazioni sensoriali, che però non bastano a restituirmi il sapore dell’originale: quella gente, quei bambini, quelle domeniche, non ci sono più da un pezzo, nella mia vita.
E il nostro campionato, ahinoi, non è più il migliore del mondo.
Non mi restano che i ricordi e una lieve tristezza che arriva da lontano.
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