di Francesco Falcone
La geografia è un’opinione per molti italiani. Bevitori e mangiatori inclusi. Ancora oggi capita di sentirmi dire, da qualche amico pugliese o piemontese: “allora, Francesco, come va nella tua bella Emilia? Ricordo sempre con piacere i chioschi di piadina sulla spiaggia e quel buon Sangiovese della pensioncina ‘Maria’, di fronte alla darsena, a Rimini”.
No, allora proprio non ci siamo. C’è ancora chi è convinto che da Piacenza in giù sia tutta Emilia o tutta Romagna. E che ovunque si preparino piade e tigelle e si coltivino sangiovese e lambruschi. Signori miei, questo è un fraintendimento troppo grande per passare sotto silenzio, un peccato mortale, direi. Con dieci caselli di autostrada si passa infatti dal grana al parmigiano; dagli agnolotti, ai tortelli, dai tortellini ai cappelletti. E, appunto, dalla tigella alla piadina. Eppoi da Antonioni a Fellini; dalla malvasia al pignoletto, dal pagadebit all’ortrugo. E, appunto, dal lambrusco al sangiovese. Insomma dall’Emilia alla Romagna. E viceversa per chi arriva da sud.
Si scrive Emilia-Romagna, ammoniscono i dizionari, e si intende per convenzione che quel trattino unisce. Ma di fatto, distingue. Congiunge, ma soprattutto divide. Provate a dare del romagnolo ad Alessandro Bergonzoni e dell’emiliano a Giovanni Solaroli e probabilmente assistereste a un duello rusticano, all’ultimo sangue.
Io che vivo da molti anni in Romagna, i romagnoli li riconosco al primo ascolto. “Ciò” e “pataca”, lo dicono solo loro (gli emiliani assolutamente no), così come solo i romagnoli veraci pronunciano le “e” strette: commércio, Robérto, térzo. Eppoi in Romagna, solo in Romagna, anche coloro che hanno studiato tanto, quando il livello di controllo delle inibizioni scende, si rivolgono all’interlocutore dicendo, ad esempio: “Loris, scusami, ma stasera non vengo in discoteca. Ho rimasto solo due giorni di vacanza e mi vado a letto che così recupero”. Solo in Romagna, e chiudo, altrimenti vado fuori tema, esistono ancora gli anarchici, i repubblicani, i mazziniani: tra San Pietro in Trento, San Pietro in Vincoli, Coccolia, e via discorrendo – siamo nella bassa Ravennate – sono più i nostalgici di Ugo La Malfa che gli appassionati di Berlinguer e compagni.
Venendo al vino, finalmente direte voi, in Romagna si produce come detto il Sangiovese. Ma non solo. C’è pure l’Albana. L’albana è un’uva a bacca bianca che rappresenta – in tutta la sua lipidica e cromatica accezione – il materialismo romagnolo: i romagnoli il materialismo ce l’hanno nel sangue. Il suo grappolo è generoso come le curve della Locandiera di Goldoni e dona bianchi fitti di colore e di tannini, ruvidi come la carta vetrata, versatili come il maiale (il maiale è l’animale preferito dei romagnoli, perché è saporito e non si butta via niente). Così versatili che dell’Albana sentirete parlare di versioni secche molto caratteriali (ma non sempre di bel carattere), di passiti densi e longevi (e talvolta perfino grandi) e finanche di qualche rustica, godibile versione spumante.
Ed è in quest’ultima tipologia che da sempre si distingue la cantina Celli di Bertinoro, di proprietà di Mauro Sirri e Emanuele Casadei (cognome che più romagnolo non si può): si chiama Talandina, la loro cuvée. Sulla vena, di amabile e succosa dolcezza. All’olfatto ricorda il grano, la mandorla e la mela matura (una mela appena ammaccata, sbucciata da un paio di giorni) e in bocca la carbonica emulsiona con buona puntualità zuccheri, acidità e tannini.
Un bianco da spiaggia o da merenda. O da merenda in spiaggia.
E buona Romagna a tutti!