È il titolo di un libro di Mark Strand (o meglio, di un libro antologico italiano di sue poesie). Sulle prime suona scherzoso e ironico, ma a ben guardare si presta a diverse letture, tutte poco incoraggianti. Nel mondo del vino l’implacabile tecnica moderna ha messo tutti i produttori, o quasi, nelle condizioni di fare bianchi e rossi privi di difetti, e questo è un successo che non è certo da condannare: il vino piacevole da bere è molto più facile da trovare di una volta. Benissimo, quindi, per la riduzione drastica di bevande scadenti o intrugliate. Non molto bene, invece, se si valuta quell’un per mille che riguarda il vino di altissimo livello, quindi spesso raro e costoso. Qui si dovrebbe pretendere di più. Invece, anche nel campo dei primi della classe, la tendenza è di proporre vini da subito buoni da bere e capaci anche di reggere qualche annetto di vita in bottiglia.
Ma quale vita? Per un singolo vino che ha originalità, e che evolve, nel senso letterale, cioè muta le sue caratteristiche nel tempo, ce ne sono cento plastificati. Vini che vivono in un eterno presente, in apparenza sempre buonini e perfettini, dopo uno, due, cinque, dieci anni. Sempre giovani, ma, appunto, in apparenza. Come nel Ritratto di Dorian Gray, c’è una loro parte nascosta che invecchia, e un palato nemmeno troppo allenato la coglie facilmente: l’impatto è quello del vino fresco e fruttato, ma il retrogusto è stanco, amarognolo, cadente. È la parte ossidata, ovviamente, che però viene celata da una similvitalità fruttata, plastificata e apparentemente longeva.
Peccato. Perché il tutto e subito causa danni anche nella produzione del vino. Chi l’ha detto che “i grandi vini sono sempre e comunque buoni in ogni fase della loro vita”? Certo, gli esempi di questo genere non mancano. Cheval Blanc 1990, per dirne una, è ed è stato sempre magnifico: a uno, due, cinque, dieci anni. Ma non è una regola universale. Anzi, nel passato anche recente non pochi vini erano pensati per dare il meglio a distanza di molto tempo.
Mi vengono in mente numerosi esempi. I sapidi Nuits St Georges di Alain Michelot da giovani sono spesso scorbutici, apparentemente grossolani, indecifrabili, ma arrivati a maturità si aprono con estrema eloquenza e finezza. Provare oggi per credere i deliziosi 88. Oppure, restando in tema di ’88 (un’annata che certo aiuta questo genere di sviluppo), appena uscito sul mercato il leggendario Lafite era un rosso duro, scontroso, tutto meno che leggendario. Si obietterà: c’è poco da idealizzare, i tannini non erano maturi, meglio di quello non potevano fare. Certo, ma non solo. Anziché cercare di dargli una finta morbidezza con un maquillage enologico, hanno deciso di rispettarne il carattere. Oggi è un vino impressionante per profondità ed equilibrio.
Il tutto e subito, l’assenza di pensiero verso il futuro, l’eterno presente producono danni, ci impoveriscono, e non occorre essere filosofi per accorgersene. Non mi interessa l’elogio del passato, ci siamo liberati di errori e problemi molto gravi nel mondo del vino (e fuori). Ma una storia finale, per me illuminante, vogliono ricordarla.
Qualche anno fa un famoso college, non ricordo se a Oxford o Cambridge, si accorse che la monumentale trave lignea del soffitto dell’aula magna era gravemente danneggiata, e andava sostituita. Qualcuno si prese la briga di consultare un vecchio registro del college risalente al Quattrocento, epoca della costruzione originaria. Ebbene, quel testo non soltanto conteneva i dati su come era stata tagliata e collocata la trave, ma indicava come, in previsione della sua sostituzione futura, fosse stata piantata appositamente un’area di alberi d’alto fusto. E ovviamente specificava dove trovare questi alberi. E così è stato fatto. Sono andati, hanno trovato gli alberi, hanno ricostruito la trave, l’hanno sostituita. Questo significa pensare non soltanto a sé, ma anche al futuro, al futuro degli altri. Questo era il futuro di una volta.