Martino, l’artigiano

hugo cabret

di Raffaella Guidi Federzoni

Dopo notti insonni, provocate da un dibattito che infoca* l’enomondo dei blog ormai da tempo immemore – cioè da qualche settimana – ho ricevuto un’inaspettata illuminazione.

Tutto nasce da una parola che trova luogo di residenza su bocche più o meno autorevoli, che viene pronunciata a destra e a manca, sempre sposa fedele del termine “vino”.

Navigando in rete, ho trovato diverse definizioni, le quali in sintesi ci spiegano che “chi esercita un’attività lavorativa a livello familiare o con un numero limitato di operai; piccolo produttore che esercita il mestiere con particolare maestria” viene definito ARTIGIANO.
A questo punto mi sarei potuta mettere tranquilla. Comprovato che il vino artigianale è quello prodotto da piccole realtà agricole, a conduzione familiare, i cui proprietari eseguono giornalmente ed accuratamente tutte le operazioni in vigna ed in cantina e la cui produzione di bottiglie è limitata e destinata ad un mercato di nicchia, avrei dovuto abbandonare le mie elucubrazioni.
Invece non mi sentivo soddisfatta. Non che la definizione fosse inesatta, ma mi sembrava incompleta.

Poi ho visto un film che per me è la quintessenza del lavoro artigianale ad altissimo livello, unito alla poesia e all’amore per il proprio lavoro. Una grande produzione cinematografica, per la quale sono stati spesi milioni e milioni di dollari. Un’opera corale in cui tutti, dagli attori, agli sceneggiatori, agli scenografi, fino all’ultima comparsa e lavorante, fino al più umile carpentiere, contribuiscono a regalarci due ore abbondanti di intrattenimento intelligente e fantastico.
Sicuramente non un film di nicchia ed altrettanto sicuramente non un film industriale. L’artefice di tutto ciò non è nuovo a grandi produzioni artigianali, donando alla parola un contenuto di qualità, specificità, accuratezza per i dettagli, unicità.

Martin Scorsese non è solo un grandissimo regista e produttore, è un artigiano nel senso più alto del termine. Un autore che ha portato nel mondo la capacità di raccontare storie vere ed immaginarie a tutto tondo. Lo ha fatto pensando in grande, utilizzando cospicui capitali di mezzi e di uomini.
Il film è Hugo Cabret, ma potrei citare anche Gangs of New York oppure The Age of Innocence.

Tornando all’argomento VINO, è forse allora possibile che la definizione di artigianalità si possa applicare a produttori che sfornano grandi quantità di bottiglie e che non eseguono fisicamente tutte le lavorazioni necessarie, ma si limitano a guidare un’insieme di persone impiegate nei diversi settori?

Per me non solo è possibile, ma è necessario. Sono le produzioni più vaste, ma “artigianalmente” marchiate per accuratezza e fedeltà produttiva, che sfondano le porte per la conoscenza del wine made in Italy, che regalano al mondo lì fuori l’immagine di quel che siamo in grado di fare noi e solo noi. Dando così la possibilità ai più piccoli di poter trovare il loro spazio, di essere conosciuti ed apprezzati.

Così come l’artigiano Martino Marcantonio Luciano Scorsese ha fatto innamorare il mondo del cinema, possiamo sperare che lo stesso avvenga per il mondo del vino grazie ad un nutrito drappello di produttori non proprio modesti come volumi, ma impegnati sul serio come qualità continuativa nel tempo.

* termine vernacolare che si può tradurre in “attizza ferocemente”.

4 commenti to “Martino, l’artigiano”

  1. Carissima NN in linea di principio hai ragione, però c’è una differenza (forse di più ma è lunedì, ho sonno, nevica e tutti i miei impegni son andati a farsi benedire etc etc).
    Il lavoro che descrivi tu è fatto da maestranze altamente qualificate, sono degli artigiani /artisti, così come Martin Scorsese.
    Tutta questa truppa ha dei costi elevatissimi (pay peanuts get monkeys) che il mondo (industriale ) del cinema può sopportare.
    In agricoltura (e con con i manager senza scrupoli e senza visione etica del lavoro che ormai circolano per il mondo) questa dovizia di operai artigiani ad alto valore aggiunto, temo che non ci siano e sopratutto non li si voglia remunerare o non si riesca a farlo a sufficienza per le loro qualifiche, per cui tagliare sui costi e le risorse umane è una attrazione forte e incontrovertibile ed ecco rispuntare protocolli semplificati e standardizzati che aiutano nel lavoro masse di operai senza specializzazione e che dire delle potature, un arte, se fatte bene potrebbero preservare vecchi vigneti dalla morte! Ma quanti degli operai avventizi hanno mai potato? Magari il cordone speronato un po’ li aiuta, ma certo il materiale vegetale ad ogni loro passata accusa colpi notevoli.
    Per cui credo poco all’industriale del vino, perchè il concetto di imprenditoria con quello di agricoltura ci quagliano poco, ormai.

  2. Il non rimpianto Bernardo Gui mandava al rogo i manichei, io non arriverei a tanto ma di queste infinite polemiche tra naturali e industriali non ne posso davvero più. Amici cari, ma ci vogliamo rendere conto che il mondo non è diviso tra nero e bianco in eterno conflitto? Laudetur semper Iesus Christus per la infinita (bio)diversità di tutto l’esistente, comprese le infinite sfumature di grigio che stanno tra il chi zappa le sue cinquantasei viti e Costellation!

  3. Premetto che nel mio scritto non ho volutamente citato il termine “naturale”, perchè non è questo l’argomento che mi interessa. Quel che voglio evidenziare è l’importanza dell'”artigianalità” per cantine di media e anche grande produzione.

    Io, a differenza di Lugi Fracchia, credo che questo sia possibile. Cioé sia possibile per produzioni anche di qualche centinaia di migliaia di bottiglie. Credo che un proprietario, o persino un manager “facente funzione”, possa essere in grado di seguire, insieme ad una squadra ben addestrata e professionale, la cura dei vigneti, la vinificazione e l’affinamento di vini diversi, ma appartenenti alla stessa parrocchia. Credo che costoro siano in grado di offrire al consumatore finale, lontano migliaia di chilometri e solo vagamente consapevole della zona di provenienza di tali vini, qualcosa che esprima tipicità, fedeltà al vitigno e al territorio, personalità irripetibile altrove. E questo non per una o due vendemmie, ma costantemente attraverso gli anni.
    Certamente tutto ciò ha un costo, e ci sono speculatori agricoli che se ne fregano altamente di tutti questi discorsi, non solo di grandi dimensioni, ma ci sono anche vignaioli/imprenditori illuminati ed amanti di quel che fanno che continuano a farlo. Se ciò non succedesse, i piccoli e piccolissimi artigiani del vino avrebbero la vita ancora più difficile.

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