di Rizzo Fabiari
Si può immaginare una bevanda più alterante dell’Assenzio? l’Assenzio vero, non le imitazioni edulcorate che circolano qua e là nella Europa. Nel secolo Decimonono la fata verde (fée verte, da non confondere con il feu vert) alterava la mente e l’animo dei poeti, li aiutava a vincere la forza di gravità e a vedere le cose dall’alto; e magari anche da dentro e di lato.
Forse non tutti sanno che (strano ma vero, spigolature) ai primi del secolo Vigesimo l’Assenzio è stato oggetto di un brutale linciaggio mediatico, che l’ha dapprima dipinto come un liquore velenoso, addirittura letale, e l’ha quindi espulso dai confini della legalità.
Ma dietro tale proscrizione non c’era una vera e propria tossicità dei suoi componenti: l’artemisia absinthium (nome botanico dell’assenzio maggiore) e le altre sostanze vegetali che entrano nella sua formula sono, nelle dosi consentite dalla legge attuale (35 mg/litro di tujone, il composto monoterpenico affine a quello della cannabis) decisamente meno dannose della frazione alcolica. E di sicuro non allucinogene (ahinoi, aggiungiamo).
La verità è che l’Absinthe si diffuse nella seconda metà dell’800 parallelamente alla progressiva carenza di vino, causata dal flagello della fillossera; nel momento in cui la produzione dei vigneti riprese, a cavallo dei due secoli, la potente lobby enoica – insieme ad altri movimenti di folla più o meno puritani – creò le condizioni perché il liquido verde venisse alla fine proibito.
Restituiamo dunque all’Assenzio ciò che la nostra bevanda d’elezione, lo vino, gli ha (involontariamente) tolto per molti decenni. Oggi si può provare una versione filologicamente scrupolosa dell’Assenzio ottocentesco grazie all’opra di Saverio Denti, erborista e distillatore a Roncadella. La bottiglia provata tra Alterati alcuni giorni fa (tra i quali Armando, Fabio, Giancarlo e Giampaolo) spiccava per sorprendente iridescenza aromatica. Indescrivibile nelle parole. Da provare nelli fatti.