di Federico Maria Sardelli
Quasi non ci volevo credere: jeri mio padre si tolse l’occhialetto, adagiò il libro sul tavolino e, col suo vocione buono mi disse: — Perché domani non invitiamo un tuo compagno, uno de’ più bisognosi e meritevoli, qui a desinare da noi? —
Io ristetti sorpreso e felice col mio burattino in mano davanti a quell’idea generosa e lieta, che mille volte m’era balenata in capo ma che mai avrei ardito di domandare a’ miei genitori. — Orsù, dunque: s’inviti il disgr fanciullo che più desideri avere a fianco e tutto s’apparecchi in suo onore! — Io gettai le braccia al collo di mio padre e, quasi lagrimando dalla gioja gli dissi: — Grazie babbino, voi avete un cuore grande! —
Fui subito preso dall’imbarazzo della scelta: invitare lo Stoppini, quel tisichino sempre mal vestito che giunge a scuola colle gote impresse dalle manate anellate del padre ubbriaco? Sì, egli aveva un’aria melanconica che mi stringeva il cuore, ma non sopportavo quel suo vizio di tossire incessantemente, che trovavo al limite della buona educazione. Avrei potuto eleggere il Busdraghi, quel ragazzone grande e grosso con due braccia come polpettoni, sempre diligente e sollecito ne’ compiti; egli è orfano d’entrambi i genitori e vive da solo con la malvagia nonna Livio che lo vessa e lo costringe ogni giorno a suon cazzotti nelle orecchie (che però ha sempre pavonazze) a procurarle le due scatole di sygari giornaliere che ella aspira con avidità mentre giuoca a ramino. Ma anche di lui, se pur sollecito ed ordinato, non mi andava quella sua brutta abitudine d’esser sempre sudato. Pensai al Mughini, il figliuol della lacciaja, a cui un grosso cane da piccolo azzannò un piedino lasciandolo zoppo; ma l’avevo tuttavia in uggia perché costringeva sempre tutti a tardar le marce e gli esercizj ginnici per aspettarlo.
Pensa e ripensa, finalmente decisi di invitare il mio buon compagno Cafieri, quello che ebbe il padre arrotato da una vettura e che ora vive colla madre (un po’ troja) d’un misero negozio di fiori rapinati a’ cimiteri. Sicché egli, prevenuto da me dell’invito, passò tutta la mattinata in ismanie per l’emozione, tant’è vero che il nostro buon maestro osteoporotico si trovò a doverlo rincretinire da’ nocchini perché lo trovava continuamente distratto ad aggiustarsi il vestito buono. Buono sì, un par di coglioni, ché era una giubbaccia a quadri di panno grosso tutta tempestata di patacche lojose da fare schifo anche al cenciajo; ma io sapevo che il poveraccio si rivestiva co’ panni dell’opera di carità, sicché mi limitai ad additarlo alle risa de’ compagni e non ne feci più motto.
Sonò dunque il finis, ed egli s’incamminò al mio fianco verso l’uscita, ove ci attendeva l’amata madre mia cor un sacchetto di dolciumi. Il Cafieri si presentò a lei arrossendo e, col capo chino, le porse un mazzetto di petunie fiacche e graveolenti sicuramente sottratte a qualche loculo incustodito. Mia madre le prese con garbo, gli fece una carezza sul capo forforoso ringraziandolo di quel bel gesto, e, mentre pregava il Cafieri di portare un caro saluto alla sua mamma (quella troja) col tacco fece fare una perfetta parabola alla miserabile verzura che s’infilò a piombo nel secchio delle immondizie appeso al muro della scuola.
Giungemmo finalmente dinanzi a casa, ed il Cafieri, ammirato dalla bellezza del palazzo, mi disse: — Beato te, che vivi in questa reggia! — Ma io gli risposi che mi fa una sega a me questa roba, e scaracchiai come sempre sui polpacci della statua di Ercole che strizza Anteo da una nicchia del vestibolo. Giunti in casa mio padre accolse il tangh mio compagno con affetto, togliendogli la giacca impestata e pregandolo d’accomodarsi sul canapè. Siccome il Cafieri non sapeva nemmeno cosa fosse un canapè, si mise a sedere sur un panchetto, e tutti principiammo a prender sospetto ch’egli non fosse avvezzo alle buone maniere. Ma ecco giunto il disïato momento di sedersi a tavola! Mio padre assegnò i posti, ed il mio compagno Cafieri si trovò a sedere fra me e mia sorella Piersilvia.
Subito egli si legò il tovagliuolo al collo ed io, sommessamente, gli dissi di toglierselo e metterselo sulle gambe; ma essend’egli affatto ignaro di questo costume, se lo rimboccò nei pantaloni, commettendo il primo grossolano errore. Mio padre lo invitò a bere ed egli, presa con malagrazia la caraffa dell’acqua, la versò nel bicchiere da cherry; tutti inorridimmo, ma cercammo di non farlo notare. Giunse finalmente mia madre cor un vassojo di vol-au-vent ripieni di caviale ed egli, dopo averne mangiato uno ignorando l’apposita forchettina, trovò che quei pasticcini eran salati! Poi giunsero le ostriche ed egli, pensando che lo volessimo corbellare cor uno scherzo giacché le avea scambiate per sassi, ne rise; allora gli spiegai a denti stretti che avrebbe dovuto aprirle con l’apposito coltello, il quarto sulla destra prima della forchettina a due rebbi da dessert.
Egli cominciò a sudare, a mugghiare per la fatica mentre cercava di vincere in tutti i modi lo sconosciuto mollusco. Prese allora a tremare tutto dallo sforzo e, movendo maldestramente il coltello, gli schizzò il sasso di mano che andò a centrare il bulbo oculare senza occhialetto di mio padre; l’orco s’alzò ululando dal dolore mentre il tapinaccio, per cercare di raccogliere il proiettile, rovesciò tutta la fila di cinque bicchieri che gli stavano innanzi sullo scollo di mia madre che, per iscansarsi, mollò la presa della zuppiera colma di Soupe de poisson à la Guiscard con cui centrò mia sorella verniciando il prezioso tappeto persiano, prima di scivolare all’indietro e percuotere colla nuca il bell’oriuolo in bronzo che ci regalò monsignor Bava. Il Cafieri si risolse d’ajutare mia madre ma, poiché assieme al tovagliuolo s’era infilato ne’ pantaloni anche un lembo della tovaglia, per iscender da tavola trascinò con sé tutto l’apparecchio; bottiglie e caraffa s’infransero sui piedi di mio padre che, premendosi colle mani la palla da biliardo dolente, andava recitando un rosario di bestemmie fioritissime contro la Beata Vergine; a mia sorella toccò la salsiera sulle ginocchia mentre mia madre, già a terra, lottava per districarsi dalla tovaglia di finissimo lino di Fiandra che l’arrotolava come una mummia impanata d’un bel trito di bicchieri.
Il Cafieri fu cacciato via a pedate nell’osso sacro e colpi di rivoltella. Quando, verso sera, la quiete tornò a regnare sulla casa, il mio saggio babbino, in guisa di Polifemo, si tolse l’occhialetto dall’occhio rimasto e mi disse: — Vedi, figliuolo, questo ci insegna la vita: che i disgraziati devono stare coi disgraziati e non rompere i coglioni ai signori. Guai a te se ti riazzardi a portarmi in casa uno di questi pestamerde —. E m’impresse uno stiaffo sacrosanto sulla gota.