di Raffaella Guidi Federzoni
Troppo lungo spiegare perché ancora dopo trent’anni condivido con lui casa, cuore e figli. Sicuramente ha anche a che fare con i pollici, e pure gli alluci. I suoi, a differenza dei miei più o meno color carne, sono verdi. Un marchio di fabbrica, un cromosoma diverso, un tatuaggio indelebile che recita “British born and raised”.
Per chi British non lo è tutto ciò rimane un mistero. Come bere tea forte e bollente anche con 45 gradi centigradi all’ombra, stringere la mano al tuo avversario sportivo dopo che ti ha massacrato ignominiosamente, perdersi nel guardare un anonimo uccellino, non mostrare le tue emozioni – a parte sulla A1 o il GRA in ora di punta -.
Tornando al verde di cui sopra, il suo è generazionale, da baby boomer. Più che figlio dei fiori però potrei definirlo figlio di orti. Il suo di orto è curato in modo maniacale, senza apporto di chimica, come fertilizzante solo il compost prodotto in casa. Più il sole e l’acqua. E tanto lavoro.
Quando con il tempo bello andiamo via per più di 24 ore, ci deve essere qualcuno incaricato dell’annaffiatura. Di solito il mio erede numero due, il quale in nostra assenza può organizzare tutti i festini che vuole, ma non deve scordarsi l’orto.
Su questo medito mentre son qui che contemplo sconsolata la zucchina numero 89 cercando di scervellarmi su un modo diverso per cucinarla e intanto leggo distrattamente le dichiarazioni di un noto chef, cittadino, ma non troppo**. Il Nostro risulta piuttosto famoso per aver introdotto in Italia il metodo Fukuoka, dal nome di un botanico e filosofo giapponese. Non mi soffermo sulle complicazioni della disciplina, sulle estremizzazioni dei suoi adepti, e su tante altre –zioni, perché qui siamo su di un blog noto per la sua prosaicità alterata, altrimenti definibile come “nonsense sensato”.
Quel che leggo e mi colpisce come una mezza chilata di brettanomyces espulsa da una magnum di Chateau Jenesaispasqua 1986, sono dichiarazioni del tipo “Fukuoka…fondatore dell’agricoltura naturale, un concetto basato su “Mu” (che significa “senza”), in sostanza “il modo migliore di agire è il non agire”.
Su questo, come non essere d’accordo? Odio gli sforzi inutili, e pure quelli utili. Bravo Fukuoka.
Andando avanti nella lettura: “(il metodo) Fukuoka non riguarda la teoria, ma la coltivazione della terra.” Benissimo, odio anche i teorici, sono per la praticità.
Continuo: “Piante, frutti e fiori vivono in perfetta armonia, non c’è bisogno degli esseri umani.” Mmmhhh… c’è qualcosa che non torna. Tutto nasce spontaneamente, vive spontaneamente e muore spontaneamente. Peccato per quei pochi miliardi di esseri umani che disturbano da millenni tutta questa spontaneità.
Poi leggo: “Seminare senza piantare i semi, basta gettarli nel terreno. Si può anche usare paglia per evitare la crescita di erbe cattive, che aiuta la terra a nutrirsi. A parte questo non c’è bisogno di intervento umano. Usiamo semi sani prodotti da una selezione naturale. L’universo produce piante senza necessità di piantarle.”
A sì? Il Signor Universo produce anche uccellini affamati e legioni di formiche zen che bene ordinate si riforniscono dei semi solo gettati sul terreno e se li portano a casa loro, lasciando il povero essere umano con un palmo di naso, senza nemmeno una zucchina o un pomodoro per cena.
Mi consolo un poco: “Ci sono milioni di malattie e Madre Natura trova sempre il suo equilibrio e armonia, la natura non ha bisogno di pesticidi.” Per quanto traballante è un’idea che ha la sua fascinazione. I pesticidi distruggono malattie nelle piante, ma ne causano altre, anche agli umani.
Infatti: “Se una pianta od una specie si ammala, è perché non è in armonia con il luogo e viene naturalmente rimossa.”
Ora però la Signora Armonia Naturale comincia a darmi fastidio. A pensarla così, per estensione si arriva al Monte Taigeto, Sparta (alla connessione arrivateci da soli).
Gran finale. Domanda: “È concesso irrigare?” Risposta: “No, io sono un forte sostenitore di lasciar fare alla natura, niente irrigazione. Devo confessare però che concedo qualche goccia d’acqua al mio basilico e alla lattuga quando cominciano ad appassire, e apro l’ombrello quando c’è troppo sole.”
A questo punto mi fermo. Penso alle nostre piantine, al limone nel vaso di terracotta, ai pomodori sempre assetati. Penso a queste forme di vita vegetale, piantate con lo scopo belluino di nutrirci dei loro frutti. Penso al mio uomo e a tutta la sua fatica negli anni, al suo primo orto creato strappando spazio alla foresta e alla macchia. Penso alla ricerca di acqua e alla parsimonia nel gestire quel poco che veniva da una sorgente o dalla cisterna.
Penso che si poteva risparmiare tanti sforzi, lasciar fare alla natura, stendersi al sole e allungare le mani pigramente per cogliere i frutti spontanei che madre natura aveva deciso di concedere.
Penso anche quanto sia stupido il considerare la natura amica e dispensatrice di armonia fra tutti i suoi appartenenti. La natura trova sì la sua evoluzione attraverso una selezione, ma è una selezione crudele ed impietosa. L’uomo, da quando si è trovato a camminare su due gambe e non su quattro, si è ingegnato a piegarla per le sue necessità. Ha subito la natura e ancora la subisce, ci si adatta e quel che non gli sta bene, lo combatte.
L’amore per la natura non vuol dire fare finta che sia tutto bello e perfetto. Se stiamo qui anche noi ci sarà un motivo.
Penso tutto questo mentre al mio britannico coinquilino affettivo leggo l’intervista dello chef Zen. La sua reazione immediata, prima di ricomporsi e dichiararsi abbastanza d’accordo sulle motivazioni, ma scettico sul metodo, è:
BOLLOCKS!
*Termine arcaico utilizzato da tribù autoctone del Frusinate, la cui tradizione approssimativa può essere “Ne faccio a meno di certe strunzate.”
**Chef Giuseppe Zen “Why I let the nature grow itself” – http://www.finedininglovers.com