Emanuele Cavalli, La sposa, 1934-1935
di Armando Castagno
Un pittore che programmaticamente scriveva di non cercare la rappresentazione di oggetti, ma la rappresentazione del sentimento che ne promana, era ovvio diventasse anche un eccellente fotografo; ma questo non l’ha salvato dall’oblio, mi pare. Quando sostenni l’esame di Storia dell’Arte Contemporanea, nessuno dei cinque o sei candidati interrogati subito prima e subito dopo di me l’aveva mai sentito nominare: non era colpa loro, che hanno vent’anni. È andata così. È semplicemente andata così.
Emanuele Cavalli nasce nel 1904 a Lucera di Foggia; nipote del sindaco e figlio di due notevoli collezionisti d’arte. Nasce e cresce nell’arte, che lo ossessiona da subito. Vive a Roma dal 1921 e con la benedizione materna finisce a studiare nello studio di un buon pittore, Felice Carena, dove trova un altro giovane allievo, romano e nobile, classe 1900, Giuseppe Capogrossi Guarna, di cui resterà amico fino alla comune vecchiaia. E i due faranno un percorso artistico parallelo, almeno fino ai 40/45 anni di età.
Ma sono diversi: tanto è pigro, sicuro, apolitico “Peppino”, e sono gli anni delle presa di potere di Mussolini, quanto è vitale, irrequieto, insicuro, attratto dall’esoterismo e antifascista Emanuele, che al PNF non si iscriverà mai. Espongono insieme, in una pensione scalcinata che non esiste più, una prima volta nel 1927, ed esiste ancora il “libro delle firme” di quella esposizione di ragazzini: accorsero Alberto Moravia, Mario Mafai, Marino Mazzacurati, Roberto Longhi e Bernard Berenson; e anche un ragazzo geniale e malato, che transiterà come una cometa in fiamme sull’arte romana di quegli anni, un Francis Bacon ante litteram, un pittore colossale, Gino Bonichi, in arte “Scipione”: morirà di tubercolosi a 29 anni dopo aver lasciato poche cose, balenanti, divampanti.
Scipione (Gino Bonichi, 1904-1933), Piazza Navona, 1930
Intanto, Emanuele se ne va a Parigi, all’epoca brulicante di pittori giovani e presi dal sacro fuoco, anche italiani: ci sono De Chirico e Savinio, De Pisis, Fausto Pirandello; nel 1930 torna a Roma, e non avendo uno studio occupa una parte di quello dell’amico Capogrossi, con un terrazzo in comune. Per i due, il periodo dal 1930 al 1937 è il più fervido della carriera figurativa; entrambi creano immagini tra le più ispirate e complesse della loro vita.
Quelle di Capogrossi, pur nel periodo più tronfio e retorico del fascismo, quello dell’impero coloniale e della guerra di Spagna, vivono di mutismo e sospensione, quella che Fabio Benzi ha definito “distillazione assoluta del fare pittorico e dei soggetti”; quelle di Cavalli, in più, paiono intrise di una enigmatica matrice occulta ed esoterica, che ad oggi nessuno ha ancora studiato per bene, ma che trafila dai quadri, messi in scena come dei rituali, in cui spose ed ancelle in chitoni e sopravvesti si preparano a non si sa cosa entro spogli interni domestici con l’espressione di chi va incontro a una iniziazione. Con Capogrossi, e assieme a Corrado Cagli, dopo una esposizione parigina (1933), Cavalli viene salutato come esponente di una “Scuola di Roma”, tonalista, quattrocentista, eppure assolutamente nuovissima, dal critico Waldemar George, che recensisce la mostra. George è ebreo, Cagli pure, e i critici di regime, per primo l’inetto Pensabene, iniziano a scuotere i testoni e a intingere la penna nel veleno. Cagli fuggirà in Francia alla proclamazione delle leggi razziali, meno di cinque anni dopo.
Giuseppe Capogrossi (1900-1972), Piena sul Tevere, 1934
Nei quadri della mostra parigina, così come in quelli dipinti subito dopo, quadri che paiono encausti a cera, atleti, canottieri, pugili, bagnanti, si fermano attoniti in una fissità da Fayyum o vagano lenti e lontani, lungo panorami geometrici saturi di mistero e silenzio; spesso non ci sono ombre portate; tutto è fuori dal tempo, smagliato nei contorni, naufragato in una luce chiara; Balthus vede la mostra, torna a casa stravolto, medita di cambiare tutto, lo cambia. Nel 1937, Cavalli prende la famiglia e si trasferisce ad Anticoli Corrado, dove Capogrossi lo raggiungerà due anni dopo; Cavalli tornerà solo nel 1945, quando l’amico avrà già meditato la sua nuova avventura informale, quella astrattista, quella dei “forchettoni”, e Cagli avrà fatto lo stesso.
Nel 1949 Capogrossi passa il fiume, abbandona del tutto la figurazione, e Cavalli, preso dallo sconforto anche per disavventure universitarie, “spacca tutto”: cioè, distrugge buona parte di quanto prodotto fino ad allora. Si salva quanto già venduto o in mano ad altri, ma si perde moltissimo. E’ finita un’epoca della sua vita, la più bella, e lui se ne rende conto; cerca di farla “morire” con lui; è quanto di più umano concepibile.
Da lì in poi, in effetti, la pittura di Emanuele diventa mestiere, e la vita si riempie di eventi sterili, ripetitivi, accelera; illustrazioni, incarichi, docenze; biennali, personali, bozzetti; collettive, antologie, conferenze; articoli, qualche premio, la vecchiaia. Diventa famoso, come desiderava da giovane, ma se ne frega, tanto quanto non avrebbe mai pensato.
Emanuele Cavalli, Il Fiore di Carta, 1974
Alla fine del 1972 Capogrossi muore. All’inizio del 1974 Cavalli dipinge, settantenne, questo piccolo quadro. La sua elaborazione del “sentimento delle cose” è completa, ed è un castello che dopo tutto questo meditare sta in piedi da solo: torna al vecchio Morandi e alla sua speculazione solitaria, al suo asociale soliloquio da lupo; dipinge una fila di oggetti umili, allineati sul tavolo, stagliati su una parete che è di un viola memorabile, ciascuno con la sua vibrazione e la sua intima spiritualità; ogni bottiglia è una fiammella, ogni oggetto è come se porgesse a chi guarda il suo talento e la sua vocazione, il vaso mostra il suo interno, la caffettiera apre il coperchio, ogni molecola si muove e vive; su tutto, affiorante da una brocca, ondeggia un fiore spampanato di carta rosa.
Quanto al colore che fa da quinta, torna in mente un testo che Emanuele aveva scritto a 29 anni, proprio l’anno che era morto Scipione, il magniloquente “Manifesto del Primordialismo Plastico”, firmato alla fine da lui e da Capogrossi: finiva genialmente così: “dal colore si deve tutto trarre; ma il risultato non è colore: è un fatto vivente”. E qui – dopo tanti e tanti anni – ecco che di nuovo come ai vecchi tempi tutto origina dal colore, eppure non è colore: esiste e trema come comunità di cose, crea una evenienza reale, solo apparentemente inanimata e in realtà gravida del senso che ciascuno di noi ci instilla dentro; infatti, “natura morta” è traduzione stupida di “still life”, che significa “vita silente”. Negli anni Trenta, questo si chiamava “tonalismo”: l’affidare al colore l’incombenza di plasmare i volumi, le architetture e gli effetti, anche compositivi, delle immagini dipinte; e questo aggrapparsi conclusivo al viola più clamoroso, quando tutto intorno inizia a svaporare nel grigio e verso il nero, è la macchina del tempo segreta e retrograda su cui Cavalli, rimasto solo, a un dato punto a settant’anni ha preso e s’è imbarcato.
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