di Fabio Rizzari
E mo’ bbasta, no? Come l’esercito planetario dei miei lettori – italici, danesi, lettoni*, indiani, bulgari – sa, da decenni faccio a testate contro ogni forma di luogo comune. Anche il principio più sacrosanto, se ripetuto supinamente come verità incontrovertibile, assume il timbro stridulo e irritante delle parole d’ordine.
Oggi mi sono svegliato con uno speciale risentimento verso il cliché del cibo e del vino “autentici”, “veri”, contrapposto dai saggi e dai dietologi al cibo e al vino industriali, “finti” per definizione.
Ma a me e a molti altri, guarda un po’, ogni tanto non dispiace mangiare e bere proprio cibi e bevande finti. Un certo panino grasso di un fast food ha esattamente il gusto artificiale e impiastricciato che mi piace provare un certo giorno. Un certo formaggino industriale ha esattamente il sapore – o meglio, l’assenza di sapore – che mi piace ritrovare dai ricordi d’infanzia.
Il tonno in scatola non ricorda quasi mai il sapore di un vero tonno; anzi, certe volte non è nemmeno tonno. Ma a me magari piace di più – qualche volta, mica dico sempre – quella versione inscatolata e seriale rispetto alla morbida verità di una carne di tonno autentica.
Insomma, la finzione ha un suo fascino, magari perverso, che i calvinisti si perdono. E non occorre scomodare il dandy decandente di Huysmans, che amava circondarsi di fiori finti, di oggetti di nessun valore, di imitazioni del vero. Basta rilassarsi e non farsi condizionare apocalitticamente dall’ideologia in ogni singolo atto quotidiano.
Senza contare quanto, in nome della ricerca della genuinità e della salubrità bio, proprio l’industria speculi biecamente sull’ingenuità di molti compratori.
Nel caso statisticamente assai improbabile transitasse un Solone da queste parti, lo prevengo. So che c’è una bella differenza tra chi può scegliere e chi è costretto tutti i giorni a mangiare cibo spazzatura. Tra chi è consapevole e chi è vittima inconsapevole del tritacarne industriale. Tra chi eccetera. Che sia fondamentale migliorare la qualità di ciò che si ingurgita fa appunto parte dei principi sacrosanti in cui credo a mia volta. Ci mancherebbe.
Ma mangiare non è sempre e comunque un atto politico. È, per noi pochi e colpevoli privilegiati in un pianeta immoralmente affamato, anche un atto di libertà.
* l’accento va sulla e
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